Uzumaki di Junji Ito, la spirale che trascina nell’orrore

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La spirale. Una curva che si avvolge intorno a un punto. Una delle forme più presenti nella nostra vita. I capelli ricci, le conchiglie, la parte centrale di numerosi fiori, tante opere d’arte, le molle degli ingranaggi, la lingua di certi rettili, le impronte digitali, la stessa galassia in cui ci troviamo si rifanno alla spirale.

In Giappone, da sempre, è un simbolo positivo. Rimanda ad esempio al cibo consumato: il kamaboko, piatto tipico della cucina nipponica a base di pesce, col suo disegno centrale decorativo ne è la prova. Nei manga la spirale viene di solito utilizzata dai fumettisti comici sulle guance dei personaggi per conferire un effetto kawaii – quindi, per caratterizzare una figura della storia come particolarmente amabile e deliziosa, magari un po’ ingenua.

Junji Ito, celebre mangaka dell’orrore, creatore di Tomie e Gyo oltre che di numerosi racconti brevi, è consapevole di questa simbologia quando sceglie di dare vita a Uzumaki (“spirale”, appunto, o “vortice”), ormai un classico del fumetto horror surreale e disturbante, universalmente riconosciuto come un vero e proprio capolavoro. Ito ribalta il simbolo, facendo derivare dalla spirale – come nessuno in Giappone si sarebbe aspettato – brutalità, deformazioni ed eventi terribili.

Uzumaki nasce nel 1998, serializzato sulla rivista Big Comic Spirits, ma arriva in Italia soltanto adesso, vent’anni dopo e diviso in due volumi, grazie a Star Comics, andando a inaugurare la nuova testata UMAMI dedicata ad alcuni tra i più grandi nomi del fumetto giapponese.

Il sovvertimento del simbolo, si è detto, ma la forza di Uzumaki sta anche nel ritrarre un tipo di paura misterioso e impalpabile (e quindi più che mai verosimile). Se si dovesse fare un paragone letterario, non potrebbe che venire subito in mente H.P. Lovecraft. Anche qui si tratta di orrore cosmico e incubi d’ogni sorta.

Ci troviamo a Kurouzu, città che forse è la vera protagonista. Kirie Goshima è una studentessa che all’improvviso si ritrova immersa in un mondo alla deriva. Ancor più che lei il suo ragazzo, Shuichi Saito. Il padre di Shuichi diventa all’improvviso ossessionato dalle spirali. Comincia a collezionare qualsiasi oggetto che rimandi a quella forma. Vasi, molle, vestiti, nastri adesivi e anfore. Passa il giorno in casa ad ammirare le spirali con cui ha riempito la sua stanza. “Ho l’impressione che nelle spirali ci sia qualcosa di miracoloso”, dichiara. Da lì in poi, tutto è perduto.

La stessa stesura di Uzumaki  pare ispirata al motivo. I capitoli danno l’impressione di essere autoconclusivi, inizialmente, eppure l’orizzonte sempre più si allarga ed ecco che un nuovo elemento si aggiunge e le linee si allargano in una spirale che non ha fine. E, andando avanti, ci si rende conto che la vita che viviamo assomiglia in un certo senso a quella della storia. Tolto l’elemento surreale noi non facciamo altro, giorno dopo giorno, che seguire una routine che presenta leggere variazioni. Fino al punto di abituarci a qualsiasi cosa.

A Kurouzu, nessuno più si stupisce se un ragazzo si trasforma in una lumaca, se un anziano signore viene ritrovato morto aggrovigliato in una cesta, se due amanti spariscono attorcigliati nel mare, se una ragazza svanisce letteralmente dentro se stessa. Se il cielo viene coperto da nubi nere e deformi. Come ne La caduta di Icaro di Bruegel, tutti sembrano ignorare la catastrofe. Con la differenza che in Uzumaki la catastrofe riguarda ognuno di loro. Se il cambiamento è graduale, si finisce per accettarlo.

A Kurouzu sono abituati ormai a simili eventi. Fanno paura, ma non abbastanza per fuggire o fare attenzione. Non più. Come una maledizione eterna e macabra, stabilita e perpetua. Un umorismo diabolico autoimposto e dettato dall’abitudine.

Il tratto di Ito fa il resto. Linee fitte, scure, inaspettate. Non a caso l’uomo che riconosce come suo maestro è Kazuo Umezu, autore claustrofobico e imprescindibile le cui vignette sono un esempio di horror vacui. Grazie alle pagine di Uzumaki prendono vita volti impossibili, torsioni innaturali dei corpi, lingue avvolte e irrealizzabili, serpenti fatti di uomini, polveri estranee, occhi risucchiati all’interno della testa. Pare persino di sentire i rumori delle case e delle strade. Del resto, forse fuggire non servirebbe a niente. Non esiste consolazione se non quella di arrendersi.

Come nel mondo in cui viviamo, il male pare non trovare una spiegazione. È un inferno concreto e senza speranza.

Con Junji Ito non ci troviamo nel confortante regno dell’orrore classico, in cui alla fine della storia possiamo trovare un senso, un colpevole, e dimenticare per sempre quell’esperienza. L’orrore di Ito è inspiegato e assurdo quanto quello reale, un orrore che s’insinua sottopelle e diventa parte della propria esperienza, un orrore simile ai mulinelli stellari dei cieli di Van Gogh – irrazionali eppure logici.

Un orrore che ci riguarda e che è destinato a ripetersi.

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