Giulio Cesare di Rigola: splatter, lupi, luci ed ombre

TSV_Giulio Cesare_foto di Serena Pea (17)

Giulio Cesare per la  regia di Àlex Rigola  e la traduzione di Sergio Perosa è in scena al Teatro Stabile di Napoli dall’8 al 19 febbraio 2017. Il regista spagnolo, direttore della Biennale di Teatro, riporta l’allestimento andato in scena a Barcellona nel 2002 al Teatre Lliure confrontandosi, questa volta,  con la sua prima regia e cast italiani.

La tragedia di Shakespeare, datata probabilmente 1599, analizza le tragiche antinomie esistenti tra mezzi e fini insiste nel ricorso, libero o forzato, alla violenza come modalità predominante nel perseguimento degli ideali di libertà ed eguaglianza. Questo assunto appare predominante già nei primi momenti della messa in scena. Un enorme parallelepipedo domina lo spazio scenico: il suo candore contrasta con tutto il resto, calato nel buio profondo. Nell’incedere della rappresentazione questo parallelepipedo fungerà da schermo per la proiezione di immagini, ambiente di ingresso e di uscita, parte dell’azione con primi piani degli attori in scena.

La contraddizione umana, dunque, dalle prime battute indica la chiave di lettura dell’adattamento di una delle tragedie più politiche del bardo: su questa struttura che predomina la scena vengono proiettate una serie di immagini tratte da eventi che hanno scosso la coscienza pubblica per motivazioni differenti. Nello specifico Barack Obama ed il suo entourage che assistono alla cattura del terrorista Osama Bin Laden ed il corpo del piccolo Aylan  riverso sulla spiaggia di Bodrum in Turchia. Nel mezzo Hitler, Stalin, Mussolini, Berlusconi, Bush, Putin ed una domanda: può la democrazia essere immune dalla violenza o si vis pacem, para bellum?

Nel portare avanti la sua personale indagine sulle motivazioni e sulle conseguenze generate dall’assassinio di Giulio Cesare il regista spagnolo ci proietta in un mondo di citazioni trasversali al mondo dell’arte: il testo shakespeariano si perde diventando puro strumento di seduzione con l’enorme scritta WORDS che fa da promemoria; gli attori, homo homini lupus, dopo aver dismesso le vesti di carnevalesche scimmie si presentano al pubblico in camicie bianche e bretelle, rievocando Robert Wilson degli anni 60; infine la scelta di far rappresentare Giulio Cesare a Maria Grazia Mandruzzato, riprendendo da un lato la presunta omosessualità del protagonista del dramma e dall’altro l’immagine modierna di donne al comando.

Da questo assunto si sviluppa il tema centrale del predominio dell’uomo sull’uomo, sulla natura, sulle cose. Questo parallelismo tra l’idea shakespeariana ed il contesto contemporaneo, tuttavia, sembra soffrire del suo stesso male. Vengono infatti lanciati, sin dai primi momenti, molti interrogativi forti, anche per l’uso reiterato di immagini che ne riflettono la natura profondamente sconfortante. Tuttavia, sul finire della rappresentazione, si avverte la sensazione che molto sia lasciato all’interpretazione dello spettatore cui spetta l’arduo compito di una presa di coscienza rispetto a ciò che il contesto politico e sociale ogni giorno impongono. Quello che invece succede in scena sembra, a tratti, avere confini evanescenti: del testo originario non si avverte l’urgenza o la drammaticità ed il filtro post moderno di fatto non riesce ad instaurare un solido momento empatico col pubblico. Se da un lato viene avvertito un concorso di colpa nel sangue versato prima della battaglia dei Filippi, reso evidente nell’immagine proiettata di Giulio Cesare/Maria Grazia Mandrizzato che giace esanime mentre tutto va avanti, dall’altro l’aver tolto alla vista dello spettatore questo momento cardine dell’opera è esemplificativo di quello che resta una volta abbandonata la sala: è come se di colpo sia saltato un ingranaggio e nonostante tutto vada avanti, di fatto, la sensazione che sia mancato qualcosa c’è.

Gli attori sono rivolti per gran parte della rappresentazione alla sala e, nella parte finale, è dalla sala che una parte di essi interagisce. La prova attoriale è molto altalenante e convince solo in parte proprio per la pecca empatica: nel coro talvolta confuso ed ingiustamente piatto di voci a distinguersi è la prova di Michele Riondino nei panni di Marco Antonio, dai contorni più umani e talvolta più concreti.

Qualche interrogativo di troppo e poche risposte per questa versione di Giulio Cesare. Luci ed ombre che lasciano l’amaro in bocca.

 

 

 

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