L’uomo che corre è fermo?

«Gregorio Samsa è convinto che attraverso una ripetizione ossessiva delle sue partiture sia possibile arrivare ad un altro livello di precisione tecnica e di qualità interpretativa ma, di contro, il suo perfezionismo lo catapulta in un limbo in cui si erodono i confini tra reale e immaginario, lavoro e spazio intimo, tra teatro e vita quotidiana. Si scontrano, allora, le esigenze del mondo esterno e le sue profonde necessità personali. Samsa ripete le sue sequenze coreografiche, come un novello Sisifo, per una pulsione psicopatologica? Oppure è semplicemente mosso dal desiderio di spingere al massimo i risultati del suo lavoro e dal sogno utopico di superare i limiti imposti dalla sua natura umana? I movimenti che Gregorio prova senza posa sono frutto di un impegno professionale e di un lavoro di concezione minuzioso tale da acquisire una ponderatezza e un equilibrio che le azioni della sua vita reale non possiedono. Gregorio è come un ragno che non può evitare di tessere la propria tela. La sua ricerca artistica che mira alla libertà doppia la sua stessa vita, acquisisce una ricchezza labirintica che sarà squarciata dalla volontà di inseguire sé stesso». 

(Lorenzo Gleijeses)

 

Il sipario si apre, ed è buio. Un timido raggio di luce squarcia il nero, si sentono uccellini cantare, un uomo cerca timidamente il risveglio: infila un braccio nel bianco, poi il naso, quindi il viso. Si ritrae, non è ancora pronto, eppure sembra anelare calore che riscaldi. Il suono del silenzio è troppo oscuro per il danzatore Gregorio Samsa, ma un’altra giornata qualunque è cominciata, tempo di rimettersi a lavoro.

Gregorio è solo in scena, il suo sforzo estremo, il sudore palpabile, basta qualche minuto perché cominci a grondare, fradicio: l’impegno del danzatore Samsa colpisce lo spettatore che si ritrova a guardarlo in un infinito ripetersi di gesti schematici che quasi diventano tic nervosi: è l’ossessione a guidarlo, o altro? Il lavoro corrisponde alla vita, la rincorre sopravanzandola, ma quali sono i risultati, se poi questo lavoro non dà vita.

Il regista invisibile lo richiama all’ordine, Gregorio non sta facendo abbastanza perciò lo invita ad andare a casa, il padre lo telefona di continuo per chiedergli cosa ne sta facendo della sua vita, la ragazza gli ricorda che ha ormai quarant’anni e dovrebbe smetterla con questi sogni. Ma Gregorio continua a correre, verso il sole nascente unico suo obiettivo, ma il treno che si muove è sempre l’altro, mai il suo. Vietato illudersi.

Gregorio torna a casa ma la sua danza continua, di certo non più libera, ma se possibile ancora più ossessionata e spiritata, la musica continua a martellare incessante, l’unica compagnia è data dalle voci mediate dalla tecnologia, onnipresente: un telefonino che squilla, una televisione che sbraita, un robot che aspira silenziosamente la polvere e chissà cos’altro (le voci nella sua testa?). Gregorio è ancora uomo, ma manca poco affinché si trasformi in scimmia, o peggio, in indefinito insetto, e a quel punto a che servirà? Non più adatto al lavoro, figuriamoci al sogno, toccherà quindi ucciderlo, liberarsene? La luce stroboscopica è impietosa nello scomporre e moltiplicare la figura del danzatore Gregorio Samsa, arriva la notte, domani è un altro giorno, si vedrà.

La performance/danza che mette in scena Lorenzo Gleijeses, guidato dalla regia/drammaturgia di Eugenio Barba e Julia Varley, è intensa e potente, non c’è confine tra personaggio e attore, sono la stessa persona che va via dal palcoscenico esausta e torna poi a prendersi il meritato applauso. Da sottolineare musiche originali e partiture luminose di Mirto Baliani, oggetti coreografici di Michele Di Stefano, scene di Roberto Crea.

Lucio Carbonelli

la forza della gentilezza e il potere dell'immaginazione

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