Dal caos, il corpo: un tempio.

«O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!». (1Corinzi, 6:19-20)

 

A che ci serve la religione, dice l’unico personaggio parlante dello spettacolo, colui che si fa carico di esprimere il messaggio di questa danza non solo con il corpo, ma anche con la voce: a che serve la religione, se già abbiamo un corpo, il nostro tempio, uno ne basta, non ne servono due. San Paolo scriveva ai Corinzi la stessa medesima cosa, il nostro corpo è un tempio, ma con significato praticamente opposto a quello messo in scena dalla compagnia Zappalà: se nella Bibbia infatti l’invito era ad aver cura del nostro corpo, tenerlo puro e pulito proprio perché non propriamente nostro, ma dello Spirito Santo dato da Dio, addirittura comprato a caro prezzo manco avessimo fatto un patto col Diavolo, qui appunto si dice tutt’altro: il corpo è vostro (nostro) godetevelo. 

 

Godetevi quest’oasi di pace, dice il presentatore, liberatevi, danzate, non importa se vi prenderanno per pazzi, avrebbe detto Nietzsche, la musica non è per tutti, o meglio, non tutti la sentono (e qui molto ci sarebbe da dire riguardo a certe moderne leggi sciagurate solo a pensarle). Qui sono le note di Beethoven a risuonare, potenti ma allo stesso tempo dolci, gioiose per chi vuole ascoltare, la Nona sinfonia in trascrizione lisztiana da camera per due pianoforti più soprano da applausi, musica laica per chi laico e libero è e vuole restare.

 

Ironicamente verso la fine della rappresentazione vediamo tutti i maggiori capi spirituali del nostro tempo prendersi per mano, sorridenti, sono gli stessi danzatori a indossare delle maschere, si tengono per mano, si abbracciano, sorridono. Sappiamo benissimo che la realtà non è così, si è perso il conto di quanti delitti si commettono al mondo per motivi religiosi, il Medio Oriente è spesso sotto i riflettori, ma ciò non toglie che anche il fronte occidentale è assai problematico dal punto di vista religioso.

 

Il prologo dello spettacolo appare freddo e silenzioso, conflittuale, danzatrici e danzatori che si muovono veloci sul palco, quasi indifferenti a se stessi, ne sentiamo il respiro, vestiti in modo casuale saranno poi trasformati dalla musica: non appena i pianisti daranno il via alla partitura la danza si farà più calda, rivestita d’arancione, pacifico colore dei monaci buddisti, illuminata da una croce la cui luce pende dall’alto, ma laterale, non c’è paura di un Dio vendicativo e furioso, qui, mentre la mano fiorita di Fatima incisa dall’occhio di Allah starà placidamente a simboleggiare forza, potere e benedizione.

 

Questa danza è fluida, come si conviene ai tempi, mai immobile, sempre in movimento, migrante: lì dove c’è transito non c’è immutabilità e assolutismo, c’è sempre la voglia di abbracciare, conoscere, guardare e guardarsi con l’altro, nonostante il dubbio assorellarsi e affratellarsi in un bacio lungo e profondo, questo bacio vada al mondo intero, scrive Schiller, forse questa l’emozione più grande data dallo spettacolo: proprio questa amorosa scena, che chiude/apre il discorso, lasciando dimenticare qualche incertezza o imprecisione: siamo umani, restiamolo: creiamo.

 

[foto di Serena Nicoletti]

Lucio Carbonelli

la forza della gentilezza e il potere dell'immaginazione

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