L’infinito cadere dell’Amore [Venere e Adone, Roberto Latini]

Siamo della stessa mancanza di cui sono fatti i sogni, recita il sottotitolo del Venere e Adone portato in scena da Roberto Latini alla meritevole e resistente Sala Ichos di San Giovanni a Teduccio con le musiche/suono di Gianluca Misiti, la luce/direzione tecnica di Max Mugnai, la produzione della Compagnia Lombardi-Tezzi.

Una rappresentazione che parte dal mito classico per poi finire altrove e ovunque: l’amore sofferto declinato in 5 scene: come scriveva anni fa l’ormai famoso Neil Gaiman, uno che di miti se ne intende: l’Amore non appartiene al Sogno, l’Amore appartiene al Desiderio, e il Desiderio è sempre crudele. Desiderare equivale a vivere, certo, ma cosa succede quando il desiderio (appagato?) muore, o peggio, viene ucciso?

Il mito narra di Adone, giovane nato da una madre/albero incestuosa, un giovane così bello che perfino la dea dell’amore, Venere appunto, si innamora di lui: colpita al cuore dalla freccia di Cupido scende in terra per passare tutto il tempo con il suo amato che si diletta spavaldo e intrepido con la caccia: Venere lo esorta a stare attento, gli animali feroci non sono colpiti dalla bellezza fisica: ma a nulla valgono gli avvertimenti della dea: Adone muore proprio durante una battuta di caccia, morso all’inguine da un cinghiale selvatico che riesce a liberarsi della lancia con cui l’ha colpito il bel cacciatore: d’ora in poi l’amore sarà anche sofferenza: il sangue un fiore, il sospiro un gemito, la carezza una ferita.

«Come per il mito, la narrazione cede il posto a variazioni dello stesso tema. Il pensiero sollecita continue aperture e aggiungiamo sipari su scene in trasformazione. Lo sguardo sposta il fuoco e abbiamo bisogno di dotarci di una drammaturgia che possa diventare strumento: fluida e plurale. Venere e Adone si trasforma così in un programma articolato in grammatiche diverse. Assecondiamo la scena nella tentazione di tentativi che si aggiungono progressivamente e numericamente alla prima uscita della scorsa estate. Nel tempo di questo tempo, mi piace sospendermi nello stesso argomento che scelse Shakespeare quando nel 1593 i teatri a Londra furono chiusi per la peste: Venere e Adone. L’amore terrestre e quello divino nel disarmo di un destino ineluttabile, è il tema trattato da Shakespeare, Tiziano, Rubens, Canova, Carracci, Ovidio, attraversando il mito nell’arte, come trattenendo il respiro. Un respiro-fotogramma, solo, fermato, definito, come a impedire che il racconto si possa compiere nel finale che già sappiamo. È forse la speranza che si possa vincere il destino, dando all’Arte il compito di sfidare il tempo e trattenerlo. Sospenderci nella tenerezza. Tra quelli contenuti nelle Metamorfosi di Ovidio è certamente uno dei più sorprendenti: Adone muore nel bosco durante la caccia a un cinghiale e Venere stessa non può nulla oltre il presentimento che la consuma. Anche questo mito ci rivela che gli Dei in tanti casi possono solo arrendersi al cambiamento; oppure lasciarsi sorprendere. Il corpo di Adone in terra svanisce nell’aria fresca del mattino e dal suo sangue in terra spunta un fiore bianco e rosso.  Lo si potrebbe percepire come un “mito della primavera”, il mito della rinascita. Venere e Adone è la storia di ferite mortali, di baci sconfitti che non sanno, non riescono a farsi corazza, difesa. Anche Amore non può nulla. Anche Amore è incapace; è sfinito, è logoro, è vecchio. Sconfitto. Eppure, cadendo, fa un volo infinito».

Per inquadrare e mettere a fuoco il tutto vale la pena di riportare tutte queste parole di Roberto Latini, corpo e voce per attore solo e solitario in scena, a dispetto dell’amore che presupporrebbe sempre una coppia, che spesso però si sfalda o proprio non c’è. Vediamo e sentiamo quindi il mito in 5 declinazioni/scene diverse, con artifici ora meccanici ora tecnologici Latini ci parla e mostra, per un teatro che non richiede solo testa, ma domanda anche cuore e, sì, sensi. Latini è quindi Cupido che scocca la Freccia, Cinghiale che diventa Re, Amante falso e annoiato che mente allo Specchio dei nostri tempi, Anziano che prende coscienza dell’ineluttabile Destino, Amato padrone che si addormenta con il suo Cane programmato per amarlo. Esercizi di stile non fini a se stessi, ma che semplicemente mostrano e dimostrano quanto l’amore possa essere matto e disperatissimo.

C’è da ringraziare la Sala Ichos per questa proposta che illumina e riscalda, in una sala piccola che però si fa mondo e casa piena di cose: una poesia di Brecht come dichiarazione d’intenti, un albero scintillante sotto cui sostare, bevendo qualcosa, ascoltando musica, perdendosi tra i ricordi di vecchie videocassette. Un posto dove amore non è sprecato, e si sente. Fortissimo.

Lucio Carbonelli

la forza della gentilezza e il potere dell'immaginazione

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *