Macbettu, cosa succede se in Scozia parlano sardo

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È andato in scena al Teatro Politeama di Napoli Macbettu di Alessandro Serra, vincitore del Premio Ubu 2017 come spettacolo dell’anno, organizzato da Teatro Area Nord di Napoli. Sala gremita che attende, con particolare entusiasmo, un lavoro che ha fatto parlare tanto di sé sia per la qualità del lavoro che per l’uscita infelice di Franco Cordelli sul Corsera.

Prodotto da Sardegna Teatro, Macbettu rilegge il Macbeth shakespeariano tradotto da Giovanni Carroni nella lingua “limba”, la variante centro-settentrionale del sardo. Serra costruisce un’atmosfera cupa e ossessiva con un disegno luci gelido e inquietante in cui la terra ancestrale è l’elemento creativo e il collante tra i diversi personaggi. Macbettu, il soldato che non teme la morte, dopo l’incontro ineluttabile con le tre Sorelle Fatali, è travolto da un insaziabile desiderio di ambire al potere fino a quello di re di Scozia.

Ecco, quindi, che l’idea geniale di Serra si incrocia con la folgorante tragedia di Shakespeare: in scena ci sono solo uomini che interpretano anche ruoli femminili, come da tradizione elisabettiana, ma il tutto avviene in un teatro naturale che richiama i simboli della Sardegna, dalle pietre alla polvere fino al pane carasau. Anche i costumi, curati dallo stesso Serra, richiamano la cultura sarda, così come le maschere del carnevale di Mamoiada. Affascinante l’uso dei corpi degli attori che si rapportano costantemente con la luce – l’americana che cala improvvisa in scena e illumina dal basso gli attori di spalle, per fare un esempio, rendendoli sagome – e, sicuramente, possono considerarsi prodigiose alcune sequenze, soprattutto quelle che vedono protagoniste le tre Streghe, comiche nel loro incedere. Ci sono la potenza del gesto e della voce, la precisione del movimento attoriale che segue i bordi della camera di luce, l’oggetto naturale trasformato in materia manipolata (il pane carasau calpestato dal fantasma di Banquo). Le invenzioni si moltiplicano, avvolgono la scena, diventano segni sofisticatissimi e pensati. Complici una squadra di interpreti, che è necessario citare uno ad uno: Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea e Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino.

Eppure, questo lavoro pregevole che, finalmente, ha concentrato l’attenzione della critica sui nuovi esperimenti drammaturgici, mi ha sollevato autentici dubbi sulla resa scenica d’insieme che mi è apparsa, piuttosto, disomogenea, composta da una serie di quadri slegati tra loro. La drammaturgia, inoltre, appare troppo dilatata e non pone gli accenti giusti sulle incredibili sfaccettature che un’opera come il Macbeth svela. Le sfumature psicologiche vengono tradotte in immagini (forte l’idea fedelissima di una Lady Macbeth in bilico tra mascolinità e femminilità) ma, molte di queste, sottraggono valore al testo per soddisfare un’urgenza diversa, più spendibile.

Ho seri dubbi, inoltre, sulla traduzione in limba che, in effetti, non può considerarsi per niente un tradimento del testo scespiriano e non aggiunge nulla al testo di origine. Appare, infatti, dissonante questa lingua corrosiva con l’ambientazione scozzese, soprattutto perché luce, corpo, suono e voce creano un nuovo testo, un nuovo tessuto e, quindi, un nuovo territorio completamente differente da quello voluto da Shakespeare ma con evidenti analogie. Perché, quindi, non dargli una nuova identità drammaturgica nel solco di quei segni legati alle tradizioni sarde? Perché non togliere completamente ogni riferimento scozzese adattando tutti i nomi e riscrivendo i luoghi?

Visto al Teatro Politeama di Napoli il 25 febbraio 2018

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