Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson, un amore nevrotico in cui il veleno è medicina

FILO

– Mi sembra di averti cercata per moltissimo tempo.

– Ora mi hai trovata. Qualunque cosa farai, falla con delicatezza.

Delicatezza: questa una delle parole chiave del nuovo film di Paul Thomas Anderson, il regista e sceneggiatore statunitense dietro pellicole come Magnolia, Il Petroliere, The Master o come Vizio di forma, basato sul romanzo omonimo di Thomas Pynchon, celebre e complesso esponente del postmodernismo.

Il suo ultimo (grande) lavoro, da poco nelle sale italiane, è Il filo nascosto (Phantom Thread).

Ci troviamo davanti a un film complesso, di cui è quasi impossibile parlare per via della quantità di tematiche che porta alla luce e del linguaggio fortemente metaforico, che presenta una storia affascinante, articolata e dai tratti surreali. Un film che squarcia qualsiasi ipocrisia. Siamo a Londra, nel dopoguerra, e Reynolds Woodcock è un famoso stilista d’alta moda. Lo interpreta un magistrale Daniel Day-Lewis alla sua ultima apparizione cinematografica, candidato come miglior attore protagonista agli Oscar 2018 dopo già tre vittorie, che regala una recitazione fisica e totalmente emotiva. Woodcock veste principesse e donne importanti, eppure le sue modelle vengono da qualsiasi classe sociale. A lui interessa avere i corpi giusti, quelli che possano esaltare le forme dei suoi abiti. Reynolds è un uomo preciso in modo asfissiante, rigoroso, a tratti ossessivo, intrappolato nella sua routine e nelle sue abitudini, che mal sopporta il cambiamento e le sorprese. La sua elegante vita è stretta in teli e stoffe, come quelli che utilizza per vestire le donne. Un personaggio preso soltanto dal suo lavoro, che non si è mai sposato, che vive una vita fatta di fantasmi e gesti sempre identici nella sua villa-atelier con la sorella Cyril (Lesley Manville), spalla destra e sorta di protettrice. La morte della madre, poco tempo prima, ha creato in lui un vuoto edipico impossibile da colmare. Sono cadute alcune certezze. La corazza si è leggermente scalfita, anche se lui tenta di tenerla assieme. Non smette di pensare a lei, indossa una giacca in cui ha cucito all’interno i suoi capelli, in un rapporto quasi maniacale di figlio.

Reynolds è distaccato da tutto e tutti.

È in una locanda che incontra Alma (Vicky Krieps), la donna che sconvolgerà il resto della sua esistenza. È una semplice cameriera, ma Woodcock viene subito colpito dalla sua figura. Ne è attratto immediatamente. E viceversa, Alma è colpita dal suo fascino.

Diventerà così una delle sue modelle, le modelle che lui muove e controlla, che “usa” finché non ne è stufo e le manda via. È abituato a un mondo in cui è lui a dirigere e decidere ogni cosa.

Le immagini di Anderson sono sempre precise, perfette, evocative. È come se ogni inquadratura fosse tagliata su misura (ricorda in ciò, soprattutto, Kubrick e Hitchcock).

In scene elegantissime e cariche di erotismo vediamo le mani di lui passare il vestito attorno al corpo di lei, in un velare che è al contempo un dis-velare, da parte della donna, le proprie emozioni.  Lui procede invece in modo meccanico, prende le sue misure come se si trattasse di un manichino.

“Non mi sono mai piaciuta molto. Ho sempre pensato di avere le spalle troppo larghe, il collo sottile come un uccellino, e non ho seno. I miei fianchi sono più larghi del necessario e le mie braccia troppo robuste.” – ma negli abiti di Woodcock ciò non è più vero, il suo corpo è perfetto per quello che lui crea.

Così sembra che sia Reynolds a plasmare Alma – anima, nutrice, un nome che racchiude molteplici sfumature di significato – creando stoffe che al contempo creano la donna e modificano la sua personalità.

Ma lei è diversa dalle altre. Rifiuta di essere solo un fantoccio, una musa da gettare via. Non si rassegna a un amore che pare impossibile. Irrompe in un universo chiuso e ne fa il suo regno.

In una vicenda che prende quasi le sembianze di un giallo, Alma farà di tutto per distruggere ciò che Reynolds era stato. Distruggerlo per farlo rinascere.  Distruggerlo perché ne è innamorata e la sua passione ha i tratti di un’ossessione.

“Sei venuta per rovinarmi la serata e probabilmente tutta la vita.”

È lei e non il sarto che, paradossalmente, muove i fili della vicenda. Reynolds assume sempre più le sembianze non di un padrone ma di un servo, inerme davanti alle azioni di Alma.

Ma in verità la loro è una costante dialettica padrone/schiavo che si fa gioco delicato tra amanti e accettazione del cambiamento.

Lui torna un bambino – fase ancora e sempre molto viva in lui – mentre le loro vite s’intrecciano. I rispettivi tormenti si confondono e si annullano.

La donna vuole far crollare le sue ossessioni, distruggere ogni barriera. La distanza, le abitudini, il silenzio. Il tavolo da pranzo è un campo di battaglia, eppure si ha fame. La loro è una lotta per la sopraffazione che si tramuta in un assurdo equilibrio, in una relazione fatta d’oscura intesa. Una relazione in cui il veleno è medicina e il dolore un processo necessario e richiesto per la felicità. Una relazione libera da convenzioni sociali, finalmente, che si esprime senza leggi imposte. Le maschere cadono. Ci si rende vulnerabili. L’unico modo per continuare a stare insieme è quello di cambiare costantemente.

“Voglio averti sdraiato sulla schiena. Inerme, tenero, aperto. Con soltanto me ad aiutarti. E poi ti voglio di nuovo forte. Non morirai. Forse lo desidereresti, ma non morirai. Hai soltanto bisogno di calmarti un po’.”

Un amore inquietante e compulsivo che trova nella debolezza la sua forza.

Un amore nevrotico, eppure al contempo sano e verosimile, in cui si cade non per rialzarsi ma per restare a terra senza forze, sdraiati l’uno accanto all’altra.

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