Maniaci d’Amore: il teatro è sociale per definizione

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Maniaci d’Amore sono Luciana Maniaci e Francesco d’Amore, attori e autori teatrali, e si conoscono al Master in Tecniche della Narrazione alla Scuola Holden di Torino di Alessandro Baricco. La compagnia nasce nel 2009 e mettono in scena il loro primo spettacolo nel 2010 dal titolo Il nostro amore schifo, un lavoro che è ancora in tournée e che è stato messo in scena in più di cento città italiane.

 

1) Se volessimo cominciare un’analisi della situazione di crisi culturale del teatro italiano, da quali segnali dovremmo partire? Secondo te/voi, la crisi del teatro potrebbe essere la diretta conseguenza di una crisi generazionale, d’identità e di opportunità? Quali sono i tempi e modi del suo sviluppo?

Sicuramente quello che avvertiamo attorno e dentro di noi è una crisi che ha a che fare col fatto che la nostra generazione sta obiettivamente peggio della precedente. È una questione economica ma che riguarda anche un passaggio molto rapido e destabilizzante verso una realtà sempre meno strutturata, sempre più liquida e priva di appigli. È un panorama complesso in cui ci sembra che il teatro viva un periodo di smarrimento identitario, tirato tra una pretesa di contemporaneità a tutti i costi e un tentativo disperato di ergersi a tradizione quasi museale.

2) Si può affermare che la crisi del teatro possa dipendere anche da una mancanza di idee teatrali forti?

Di certo le condizioni non aiutano. Ci sembra che storicamente i periodi floridi economicamente e culturalmente partorivano menti brillanti. Ciò non toglie che qualche folle di talento ci sia e voglia incanalare – malgrado ogni raziocinio – il suo estro in un settore quasi invisibile. Quando questo avviene, il teatro diventa un luogo dove la bellezza può diventare commovente.

3) Qual è la funzione sociale del teatro oggi? Quali necessità soddisfa?

Il teatro è sociale per definizione. Ogni replica è un evento sociale. La gente si incontra, parla, ride, si confronta più o meno direttamente. Con la sua presenza modifica lo spettacolo stesso. Questo è ciò che non potrà venire mai meno nel teatro.

4) Si può credere a un rinnovamento del teatro o siamo in attesa di un modello culturale che possa scuotere le coscienze?

Un rinnovamento ci sarà se chi fa teatro lo farà con gioia, con grazia e con desiderio. Non pretendendo ciò che il teatro non può dare ma neanche accontentandosi mai del risultato minimo, rilanciando sempre.

5) Lo Stato sostiene il teatro in Italia? Se sì, ne beneficiano tutti?

No. C’è un grande disinteresse e un grande squilibrio nell’erogazione delle risorse. Una cosa viene dall’altra e sono entrambe indissolubilmente legate.

6) Le due misure più estreme ed urgenti da mettere in atto, secondo te/voi.

Noi sogniamo degli intellettuali appassionati ai vertici di potere nel sistema teatrale. Non degli operatori burocrati, non dei critici frustrati. Intellettuali. E di passione. Disposti a cercare il talento, la diversità, gli artisti veri. Ma in questo momento ci sembra difficile immaginare una realizzazione di questo sogno.

7) Ha ancora senso mettere in scena i classici? O andrebbero “tolti di scena”? Quanto influisce la scelta politica di un direttore artistico?

I classici hanno senso quando sono la nervatura del nuovo. Non è impossibile rintracciare in serie tv come Breaking Bad, ad esempio, la lezione di Shakespeare. Diversamente in tanti allestimenti shakesperiani, Shakespeare manca. Dunque i classici vanno studiati, non riproposti stancamente per dare l’illusione al pubblico di fare cultura. Dai classici, e dall’esperienza del contemporaneo si può e si deve fare nuova drammaturgia. Il nostro primo spettacolo, “Il nostro amore schifo”, è partito ad esempio dalla lettura del “I dolori del giovane Werther”, de “Il giovane Holden” e di “I turbamenti del giovane Torless”. Pochi spettatori se ne avvedono, eppure per noi questi sono stati punti di partenza fondamentali.

8) Si può parlare di “dittatura teatrale” nel mondo delle arti in scena? Se sì, perché?

Non ci sembra. Nel piccolo dominio delle arti sceniche c’è spazio per la danza, per la performing arts, per la video arte. Lo spazio è poco ma ben diviso.

9) È possibile un “teatro della crisi” in cui artisti, spettatori e critica trovino un punto in comune?

Spesso noi diciamo che siamo artisticamente nati ben oltre il momento della morte del teatro, di Dio, delle passioni, della politica… Quindi non ne abbiamo sofferto molto. Chi arriverà tra poco forse sarà ancora più forte di noi. E magari allora tutti i “nativi post-crisi” inizieranno a ricostruire insieme qualcosa di nuovo e diverso. Forse non ci sarà spazio per il teatro o forse sì, l’importante è che un rinascimento avvenga.

10) Quant’è importante lo spettatore a teatro? Quanto è necessario investire nella formazione di un pubblico consapevole?

Lo spettatore è tutto. E il pubblico si educa alla bellezza proponendogli lavori buoni. Anche chi non è abituato a frequentare spettacoli quando poi ne vede uno sente se – sotto sotto – c’è qualcosa di vivo ed emozionante. Si tratta di ripulire il pensiero dalla soggezione derivata dalle posizione a volte volutamente elitarie di certa critica, ma anche dalla soddisfazione bassa legata a prodotti che replicano tristemente l’intrattenimento televisivo.

Prima di salutarti, ringraziandoti per la collaborazione, ti chiediamo un’ultima riflessione: qual è la tua missione teatrale? Come immagini la situazione culturale e teatrale italiana nei prossimi cinque anni?

La nostra missione teatrale è fare il teatro. Creare mondi drammaturgici, sperimentare le possibilità della parola. Divertirci e divertire proponendo qualcosa di onesto. Seguendo il nostro gusto, lo sviluppo il più possibile autonomo del nostro percorso creativo. Insomma fare bene. Fare bene è sempre un’obiettivo umile che può muovere le rivoluzioni.
Cinque anni sono pochi, ma forse tra vent’anni qualcosa cambierà.

 

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