Mario Bianchi: attraverso il teatro un nuovo alfabeto dell’immaginario

Mario Bianchi

Mario Bianchi è nato a Varese nel 1948, si è laureato in Lettere Moderne all’Università Cattolica di Milano nel 1975 con una tesi su kitsch in letteratura. Autore, regista, animatore e critico, si occupa da diverso tempo di teatro.
Nel 1977 fonda a Como il Teatro Città Murata, una delle più importanti compagnie del Teatro ragazzi Italiano di cui è stato Direttore Artistico fino al 2012 affidandola poi ai componenti più giovani.

Negli anni ’70 e ’80 agisce soprattutto nel campo della performance, inventando manifestazioni di grande impatto popolare. Negli ultimi anni si è soprattutto dedicato al teatro per ragazzi e alla narrazione con interventi critici, creazione di rassegne e spettacoli : Frollo (1992 ) per Marco Baliani Splendido Diurno 1994, Il primo miracolo di Gesù (1996 ), Lo Spaventapasseri (1997), La storia di Leggera (1998), Dall’alto (2000), I vestiti dell’imperatore (2003), Shakespeare’s game (2006), Il Racconto di Prometeo (2007), La quinta stagione ( 2008 ), Rashomon, la tragedia è morta viva la tragedia (2008), La Lavapaure (2009), Tutti i colori del buio (2009), Otello e le nuvole (2009) suo primo testo per burattini, Binge Drinking (2011) per ii Teatro del Buratto, “Il volo dell’Ippogrifo” ( 2014). Ha realizzato tre percorsi tematici dedicati ai ragazzi per i teatri di tradizione sull’opera, Shakespeare e fiaba presentati per 12 anni a Brescia curati dal C.T.B.
È autore di video-montaggi tematici, legati principalmente all’infanzia presentati in diversi festival, tra cui uno dedicato ad Amleto per il Franco Parenti di Milano.

È direttore rivista telematica dell’Ente Teatrale Italiano”Eolo”, il sito ufficiale del teatro ragazzi italiano e condirettore artistico del Festival di Vimercate “Una città per gioco” uno dei più importanti festival del teatro ragazzi italiano. Collabora con la rivista Hystrio ed è redattore della rivista online Krapp’ Last Post,una dei più autorevoli web magazine di teatro.
Dirige il Festival nazionale della narrazione di Mariano Comense, il più importante in Italia in questo ambito,ha realizzato una delle stagioni teatrali per ragazzi del teatro di Scandicci.
Nel 1995 è stata proposta e discussa, presso l’Università Cattolica di Milano, una tesi di laurea sul Teatro Città Murata ed in particolare sul suo lavoro.
Nel 1998 ha curato le voci del teatro Ragazzi nella stesura del Dizionario dello spettacolo della Baldini&Castoldi. È stato consulente per il teatro dell’Amministrazione provinciale e dirige la scuola di teatro per il Teatro Sociale di Como di cui è consulente per il teatro di ricerca e per il teatro ragazzi. E’ uscito da Titivillus il suo Atlante del teatro ragazzi italiano.

 

Se volessimo cominciare un’analisi della situazione di crisi culturale del teatro italiano, da quali segnali dovremmo partire? Secondo te/voi, la crisi del teatro potrebbe essere la diretta conseguenza di una crisi generazionale, d’identità e di opportunità? Quali sono i tempi e modi del suo sviluppo?

Io non sarei così catastrofico nel parlare di crisi culturale del teatro italiano, forse perché il teatro è sempre stato in crisi, sempre una risorsa culturale secondaria. Avendo attraversato il teatro, dagli anni settanta del secolo scorso sino ad oggi, prima da teatrante e poi da critico, mosso da passione, mi pare di poter dire che, dall’inizio del nuovo millennio ad oggi, poco sia cambiato, sottolineando ovviamente che, negli ultimi tre decenni di quello scorso, la situazione fosse senz’altro più stimolante. Certo molte strutture chiudono, altre sono in difficoltà, ma al loro posto ne nascono ulteriori decine. La crisi oggi la si avverte soprattutto nelle minori, dal punto di vista remunerativo, possibilità, che hanno colpito tutti, produttori e artisti. Ma paradossalmente ci sono migliaia di opportunità in più, ancorché spesso assai discutibili, che noi allora non avevamo, lo vediamo nel proliferare di premi, bandi, fringe che promettono un futuro a poco prezzo, spesso illusorio. La stessa cosa è per il critico che scrive su più siti e riviste, nella maggior parte dei casi, lavorando gratuitamente. D’altro canto, da parte delle nuove generazioni c’è comunque una grande voglia di fare teatro, innumerevoli e lo ripeto essendone testimone, sono le compagnie nuove che nascono, rispetto, paradossalmente, a un mercato in grande contrazione. Dobbiamo anche considerare che il mestiere di fare teatro, perché pur di mestiere si tratta, è molto particolare, una febbre direi, che ci fa fare fatiche che non faremmo per nessun altro. Un attore della nuova generazione, per poter guadagnare normalmente, deve entrare almeno in 4 produzioni, fare 5 laboratori e, in più, sente l’esigenza di fondare con due colleghi una propria compagnia. E queste compagnie, dobbiamo dirlo, hanno oggi la fortuna di avere un supporto critico che in quegli anni non c’era.

In quei formidabili anni, gli anni ’60, volevamo lasciare ai ragazzi un mondo migliore, ma il risultato in molti campi è che, complice anche l’esiziale ventennio berlusconiano, abbiamo consegnato loro un mondo peggiore del nostro, senza nuovi ideali, senza punti di appoggio, e lo cercano però muovendosi in tante direzioni. Trovo che, paradossalmente, facciano molta più fatica le generazioni di mezzo, io faccio l’esempio di due grandi artisti come Manfredini e Morganti, che vengono stritolati da un meccanismo di “ tutto e subito”. Uno spettacolo e via un altro, senza le prove, lo studio necessario. Solo in alcune compagnie esiste il repertorio. Bisogna poi lasciare il tempo alle nuove compagnie di maturare, non osannarle per uno spettacolo, e poi distruggerle per il secondo, caso mai avvertirle che il successo potrebbe fare male, come mi è capitato di fare con amorevole attenzione per Carrozzeria Orfeo. Del resto le compagnie di questa generazione le considero un po’ come miei figli, compito del Critico consapevole è accompagnarle per mano, senza ovviamente connivenze. Scoprendone di nuove e facendo attenzione di non osannare sempre le solite che spesso sono riuscite abilmente a costruire un meccanismo dove l’encomio è sempre servito. Crisi, certo, senza dimenticare il Sud, dove poche compagnie sono tra mille difficoltà un vero e proprio presidio culturale, esempio eclatante Napoli, dove il famigerato Festival e il teatro nazionale, hanno ucciso le decine di iniziative che prima vivificavano la città, o la Calabria, dove esiste un patrimonio teatrale, spesso sommerso, da valorizzare con più forza.

Si può affermare che la crisi del teatro possa dipendere anche da una mancanza di idee teatrali forti? Qual è la funzione sociale del teatro oggi? Quali necessità soddisfa? Si può credere a un rinnovamento del teatro o siamo in attesa di un modello culturale che possa scuotere le coscienze?

Il teatro è paradossalmente più utile oggi, in epoca di tecnologia comunicativa potentissima e pervasiva, proprio perché si ha bisogno di uno spazio di autenticità che il teatro riesce ancora a dare, un momento di condivisione che viene negato in quasi tutti gli ambiti della vita quotidiana. Nella società dell’inganno, per paradosso, lo strumento della finzione è il massimo strumento per indagare il reale .
Ma poco, troppo poco teatro parla dell’oggi, pochi sono gli autori italiani che si stanno affermando per un teatro vivo che possa scuotere le coscienze addormentate, anche se si sta affacciando un nucleo di nuovi autori assai interessanti, come per esempio Davide Carnevali, che ha diverse sue creazioni rappresentate all’estero, mentre però in Italia fa molta fatica ad imporsi. Ha sempre parlato dell’oggi, in parte, la narrazione, che però ora si manifesta con moduli assolutamente ripetitivi. Oggi, i giovani, come detto prima, vogliono fare teatro, più che vederlo. Il che genera un certo solipsismo. Una incapacità di rendere universali le proprie contraddizioni. C’è una certa mancanza di cultura teatrale, o di cultura più in generale, che fa sì che si siano persi riferimenti, i padri, i maestri. Non sanno nulla del grande teatro classico, non conoscono i grandi caratteristi del ‘900. Si vedono giovani compagnie che pensano di essere molto trasgressive facendo ciò che il Living faceva 50 anni fa. E ciò malgrado la quantità di scuole, corsi e premi e spazi ad hoc per i giovani. C’è bisogno di avviare processi più lunghi e complessi. In questo mi piacerebbe una scuola nazionale dell’attore dove confluissero i grandi maestri che abbiamo a disposizione per formare veramente un giovane attore che sappia recitare, improvvisare, danzare, utilizzare il teatro di figura.
Un altro problema è la divisione, alimentata anche dai decreti ministeriali, in settori, ognuno diviso come da compartimenti stagni. La prosa, la ricerca, il teatro ragazzi… In questo modo non vi sono contaminazioni e ci si isterilisce. La ricerca spesso finisce con l’essere manierismo, discorso per iniziati, teatro settario. L’ ampliamento del pubblico deve essere la sfida del domani.

Lo Stato sostiene il teatro in Italia? Se sì, ne beneficiano tutti?

Purtroppo qui bisogna rompere le regole del consolidato, controllare che chi ha ricevuto sempre, anche oggi lo meriti, bisogna rompere le logiche politiche, creare una rete di osservatori qualificati che possa monitorare di regione in regione le effettive qualità del teatro che vi agisce, facendo da tramite per chi deve decidere. Faccio sempre l’esempio del premio UBU, costruito materialmente qualche anno fa da quell’artista considerevole che è Roberto Abbiati, ma quanti dei votanti conoscevano il suo lavoro teatrale? C’è un teatro sommerso che quelli che dovrebbero amarlo, non conoscono. Bisognerebbe valorizzarlo e non premiare sempre i soliti che sanno come farsi amare dalla critica e dai politici.

Le due misure più estreme ed urgenti da mettere in atto, secondo te/voi.

Rinnovare la direzione artistica dei teatri affidandole agli artisti delle generazioni dei quarantenni, cinquantenni. Qualcuno ha detto che è sbagliato lasciare la direzione dei teatri ai registi, secondo me è invece è giusto farli lavorare, con tempi e budget giusti, assecondati, però, poi, da operatori culturali che insieme a loro possano fare scelte di stagioni senza scambi, diverse e autorevoli.
Poi, fare come si è fatto in Puglia, negli anni passati con le residenze: aprire in ogni paese, quando lo possiede un teatro, fare in modo che abbia un contributo dal Comune, dalla Regione ed in proprio, con l’obbligo di una stagione di prosa, un’altra per ragazzi e laboratori teatrali per la cittadinanza. Là le compagnie si mischiano, collaborano tra loro, portando eccellenza. Altro esempio di residenza virtuosa è “La corte ospitale” di Rubiera, gestito da persone, giovani e curiose, che produce, fa residenze reali, promuove progetti per rinnovare il teatro.

Quanto influisce la scelta politica di un direttore artistico?

Non me ne intendo, ma osservando da lontano, penso tanto.

Ha ancora senso mettere in scena i classici? O andrebbero “tolti di scena”?

Non so se perchè  ho quasi settant’anni,  ma certo che ha senso, ma ad ogni classico dovrebbe essere appaiato un testo che parli del contemporaneo, anche se i classici, quelli veri, anch’essi parlano del contemporaneo, bisogna però riuscirci. Del teatro quando fa la radiografia profonda della realtà, non si butta via niente. A me interessa tutto il teatro da Sciarroni a Lavia. In un teatro che manca  di autori, in  un teatro che vede in scena al massimo uno due attori, i classici mi consentono di vedere 10 attori in scena. Ma vorrei rivedere soprattutto testi che non si vedono da anni. In questo senso ho chiesto ad Antonio Latella, di cui ho amato tantissimo il progetto “Santa estasi” sulla Tragedia, di mettermi in scena un bell’ “Agamennone “ dell’Alfieri. Ho molta nostalgia di un teatro di parola recitata bene da 16  giovani attori, mi piacerebbe rivedere “l’Anatra selvatica” di Ibsen , l’Adelchi,  l’Aminta del Tasso, (vero Ciro Masella?). Ma esistono attori di scuola italiana in grado di metterli in scena? Dopo aver visto “l’Opera da tre soldi del Piccolo”, temo di no.

È possibile un “teatro della crisi” in cui artisti, spettatori e critica trovino un punto in comune? Quant’è importante lo spettatore a teatro? Quanto è necessario investire nella formazione di un pubblico consapevole?

Diciamolo subito, il teatro che piace a noi, il teatro che indaga la realtà del di fuori e del di dentro, interessa a pochissime persone. Lo so benissimo, è un luogo comune, ma è così, alla maggior parte della gente interessa divertirsi in modo leggero, vedere in teatro dal vivo ciò che ha visto in televisione. Alla mia età, dopo aver cercato di cambiare, magari, sbagliando, il mondo con il teatro, ho deciso di urlare “volete la merda, prendetela, io ascolto Mozart, amo Bergman e Piero della Francesca, ho troppo poco il tempo che rimane per pensare a voi, arrangiatevi”. Comunque se tanto tempo fa pensavo che con il teatro avrei potuto cambiare il mondo, adesso mi accontento di cambiarne una sola, di persona. Cerco nel mio piccolo quegli artisti magari sconosciuti che voglio che siano valorizzati, li seguo e li offro ai miei lettori, attraverso le mie recensioni, i miei approfondimenti, spero, non ne sono sicuro, che qualche spettatore voglia cimentarsi anche in qualche cosa di più profondo. Dobbiamo comunque per uscire dal pantano, insieme ricostruire a costo di essere didascalici, attraverso il teatro, un nuovo alfabeto dell’immaginario civile e sociale che possa interessare il maggior numero di spettatori rimescolando poetiche e gusti.

Il pubblico c’è ma è irretito purtroppo dal teatro di intrattenimento, è stato drogato dal barzellettismo berlusconiano e gli altri non sono riusciti a ridimensionare il fenomeno. D’altro canto bisogna anche smettere di pensare che il teatro che conta debba essere sempre per obbligo pesante e triste per antonomasia. Sembra che spesso a molti non interessi coinvolgere nuovo pubblico, strapparlo alla tv o alla pigrizia o più semplicemente renderlo più pluralista, onnivoro, offrendo stagioni in cui si offre l’alto ed un basso ben fatto e popolare. Io poi, che da trent’anni mi occupo anche e soprattutto di teatro per l’infanzia, un teatro per un pubblico di bambini che sono a tutti gli effetti il pubblico di oggi che diverrà poi quello di domani, intuisco la possibilità di creare un vero teatro per tutti, la strada da seguire è ancora una volta il teatro popolare di ricerca. Penso a “i Sacchi di Sabbia” per fare un nome, un teatro gradevolissimo, mai banale e sempre pensante. Sull’educazione del pubblico ci sono poi bellissime iniziative in giro, la Casa dello spettatore a Roma, i Visionari di Kilowatt, i laboratori di critica. Tutti in verità sentono l’esigenza di allargare il bacino del pubblico, è la sfida del domani.

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