I Simpson – tra Griffin e Disney

di Lorenzo Iaconis

I Simpson

Leggo spesso, di questi periodi, di come l’acquisizione da parte di Disney abbia snaturato i Simpson. La storia del politically correct e solita roba.
Eppure, personalmente, ho l’impressione che la Disney non sia la cosa peggiore capitata a questo
show, che fa parte della mia vita da che ho memoria – cosa che rende la mia opinione, se non autorevole, quanto meno valida.

La mia percezione, oggi come allora, è che i “veri Simpson” siano quelli delle prime 10 stagioni e
che abbiano toccato il loro punto più basso a cavallo tra la 11ª e 12ª – episodi come “Chi con fede agisce, con fede guarisce”, “Questa pazza, pazza Marge” e il nadir di “Trilogia di una giornata”.

Da allora, il livello è rimasto medio-basso costantemente per tutta la seconda decade – episodi che non ricordo nemmeno di aver visto in prima visione, ma di aver poi recuperato nel corso di anni di repliche e che non mi sono mai entrati nel cuore come quelli della mia infanzia.
Non saprei a cosa attribuire tutto ciò: per quanto mi riguarda, ho sempre pensato dipendesse dal
nuovo standard (inferiore) imposto dal nascente BOOM di Griffin e South Park che, da semplici
derivati, hanno finito con l’inquinare e stravolgere l’originale; oppure all’epoca gli autori migliori erano impegnati su Futurama – che non a caso, se mi perdonate la ripetizione, pur non essendo mai stato migliore dei migliori Simpson, era senz’altro migliore di quelli prodotti nello stesso periodo (gli anni 2000 appunto).

Da qui la mia convinzione che i Simpson, semplicemente, fossero un prodotto emblematico degli anni ’90 che non avesse passato la prova del nuovo millennio. Almeno fino all’uscita del film, a cavallo tra 2007 e 2008. (Non particolarmente) acclamato dalla critica, per me è stata l’occasione per far finalmente pace con Homer e famiglia.
Seppur lontano dai fasti irripetibili del passato, è stata senz’altro la loro miglior produzione di quel
decennio – e l’inizio di una nuova ripresa, a cominciare dalle stagioni a venire. A distanza di anni, avrei scoperto del coinvolgimento di tale David Silverman, mastermind dei primi episodi originali, e tutto ha avuto più senso: ancora oggi, riguardo quel film con piacere.

Superato lo scoglio della 20ª stagione, ancora non si è però tornati nell’ambito degli episodi
memorabili e non sono mancati gli scivoloni; in tutta onestà, devo ammettere che solo le ultime 3-4 stagioni sono riuscite a darmi quel grado di coinvolgimento che ho sempre preteso dalla serie – nonostante il trauma di trovarmi di colpo (all’epoca non seguivo, per cui non è stato graduale per me) l’intero cast dei doppiatori quasi totalmente cambiato, ma quella è una questione e un dispiacere (R.I.P. Tonino) tutto italiano – e non saprei dire quanto la cosa coincida con il subentrare della Disney (davvero, non ho mai capito quale stagione di preciso inauguri l’acquisizione, ma credo siamo da quelle parti lì); sicuramente, coincide però col riapparire del nome Silverman nei credits, oltre a quello di Dan Castellaneta – voce originale di Homer da sempre e quindi, di diritto, oggi massimo conoscitore dello show e oramai eguagliabile a Matt Groening stesso nel ruolo di co-autore – come consulente creativo.
E in fondo, è di questo che si tratta: riportare i Simpson alle loro origini, quando il loro punto di
forza non era la scorrettezza, ma la schiettezza, nel raccontare famiglie e persone vere, lontane
da quella perfezione imbalsamata e innaturale millantata dalle altre sit-com, che perpetravano uno stantio stereotipo americano – che quello sì che puzzava davvero di politically correct

Il vero nemico dei Simpson non è stata la Disney, ma la serie stessa, quando ha iniziato a
rincorrere altri titoli sui sentieri del grottesco, del no-sense, dello splatter e della scorrettezza,
territori nei quali questi altri eccellevano, senza riuscire invece mai a raggiungerli e finendo solo col tradire la propria cifra stilistica che, sebbene apripista proprio per quegli altri, loro non avrebbero mai dovuto abbandonare.

Si sa: l’innocenza, una volta persa non si recupera ma, in questo senso, se la “pulita” Disney può essere il deterrente che non faccia più sembrare Springfield un qualcosa uscito dalla penna di Seth McFarlane (contro il quale non ho nulla, anzi, però a ciascuno il suo), allora ben venga; con l’auspicio che non si tratti di un’ombra, ma di una manna, che aiuti a ritrovare la via dell’autenticità.

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