I Balli di Sfessania. Storia, migrazioni e presenza teatrale di una danza moresca napoletana

Le figurine di Jacques Callot hanno acceso la fantasia di scrittori, registi, scultori e musicisti. Hanno maschere in cuoio e nomi noti – Scaramuccia, Scapino, Razzullo, Ricciulina, Pulliciniello – ma anche spade, bastoni, strumenti musicali. Alcune si esibiscono su un palco, quasi tutte sono circondate da spettatori, soprattutto sullo sfondo. Per secoli sono state viste come riproduzioni di attori del Seicento, eppure Callot ha intitolato la sua raccolta Balli di Sfessania, con un riferimento immediato e preciso alle danze; il nome misterioso e un po’ osceno ¬– Sfessania – ha però confuso le idee e dato adito a diverse ipotesi.
Benedetto Croce già si era accorto che diversi scrittori napoletani tra Cinque e Seicento ne avevano fatto cenno: Ioan Battista del Tufo, che ne descrive i passi, e Giambattista Basile.

Callot scrive anche delle didascalie. In copertina si legge Lucia mia, e Madama Lucia si lascia baciare la mano da Trastullo. Ma Lucia, insieme con Giorgio, è una delle protagoniste delle moresche vocali di Orlando di Lasso. Sono composizioni a più voci che imitano la parlata degli schiavi neri presenti a Napoli. E il ballo della Lucia è testimoniato per diversi secoli tra Napoli e Firenze.
Una schiava nera, una bernaguallà, c’è anche nel Cunto di Basile: è incinta del principe, che ha sposato con l’inganno, e lo minaccia di abortire se lui non esaudirà tutti i suoi capricci, tra cui quello di sentir raccontare storie. Il bambino che porta in grembo si chiama Giorgio, anzi, Giorgetiello. Verso la fine, nella favola de Le tre cetra, compare un alter ego dell’infida protagonista, la schiava… Lucia. E bernovallà è scritto anche sul frontespizio di Callot – e Pernovallà è uno dei personaggi ritratti.
Dunque, la Sfessania e la Lucia erano anche danze, diverse tra loro, difficili da ricostruire con precisione, ma che per certo prevedevano movimenti di mani e piedi, ampi ancheggiamenti, contorsioni e imitazione dell’atto amoroso. Una sorta di moresche, dunque. Venivano danzate anche dai comici dell’arte e infatti vi sono diversi esempi nelle commedie a stampa. Per il loro carattere parodistico e osceno erano ammesse in un periodo dell’anno in cui l’ordine era sovvertito e si indossavano maschere: il Carnevale.

Che fossero poi musicalmente diverse, è evidente confrontando intavolature per liuto, sparse tra Firenze e Parigi.
Valentina Confuorto ha messo a confronto testimoni iconografici, musicali, letterari e teatrali, ricontestualizzando queste danze in un’Italia – e in un’Europa – dove lingue, colori, invenzioni e parodie si contaminano e viaggiano tra le strade e tra le corti, insieme con musicisti e attori.

Bio

Valentina Confuorto è musicista, musicologa e drammaturga. Ha conseguito col massimo dei voti il diploma in flauto dolce e la laurea in Musicologia a Padova, poi a Venezia la laurea in Filologia e letteratura italiana in storia del teatro. Ha collaborato come assistente casting e assistente alla regia per produzioni cinematografiche italiane e straniere. I suoi spettacoli sono andati in scena a Dublino, Milano, Roma e Venezia. Attualmente insegna storia della musica al conservatorio di Pesaro e scrittura creativa all’Accademia di Belle Arti di Frosinone.

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