Elephant, il film da Palma d’Oro sul massacro della Columbine High School

La disaffezione bressoniana cui fa riferimento Kent Jones in “Film Comment” (settembre ottobre 2003) è luminosa chiave di lettura del film. Gus Van Sant ripete il processo di fantasmizzazione di Psycho, eleva l’evento (s)oggetto dell’opera alla scarnificazione estrema della riproduzione. Non a caso nella copia di Hitchcock la vera provocazione era rifare gli stessi movimenti di macchina, le medesime inquadrature; il clone ha come obiettivo il disvelamento crudele dell’oggetto (per copiare bisogna conoscere bene l’originale).
In Elephant Van Sant è stimolato da un procedimento conoscitivo, che comunque sfugge alla infinita possibilità di percezione registrazione. Il titolo, infatti, si riferisce alle impressioni di alcuni ciechi che, toccando un elefante, lo scambiano per un muro, un serpente, una corda, un albero ecc. Esemplare mistificazione dello stesso oggetto che può variare all’infinito. Di fronte alla realtà siamo come quei ciechi, perché non è possibile ricondurre anche un solo personaggio ad un segno preciso, inequivocabile. Gli alunni della High School di Portland sono tutti diversi tra loro, non possono rientrare in uno stereotipo, ciascuno vive la scuola soggettivamente, prescindendo da quelle chiare indicazioni drammaturgiche che potrebbero far piombare il film in tradizionali racconti emotivi, dove la psicologia ha sempre un campo visivo strutturato sul principio di causa ed effetto. Così non è, la mdp spia i movimenti dei ragazzi, rappresenta le solitudini, le sofferenze, anche le gioie della quotidianità spicciola, ma rimane neutra quando la stessa inquadratura è ripresa da un’altra angolazione nell’identico spazio tempo. Come dire che stiamo vedendo solo particelle minime di qualcosa di gigantesco, non visibile, non limitabile. Le riprese al ralenti accennano a un’altra dimensione del tempo.

In Elephant è proprio lo spazio tempo che infine deflagra in una zona riconoscibile, delimitata dalle mura della scuola, nei corridoi o nelle aule. La perturbazione dei luoghi, lo straniamento è già avvenuto, ma vediamo solo l’accadimento mostruoso, l’orrore che prende forma in quello spazio tempo che sta per essere segnato definitivamente da questa estrema perturbazione. Come Shining, anche qui l’evento si fissa nella storia di uno spazio tempo, tutto il resto appartiene alla fantasia di chi narra, alle altre suggestioni tipo il depalmiano Carrie, al gusto di cento altri film dell’orrore dove la follia omicida può avere forse una causa scatenante. In Elephant questo approccio è messo da parte, le notazioni sui vari personaggi sono appositamente minime, per non deviare dall’obiettivo di questo laboratorio dell’evento. Non a caso uno dei personaggi (dovremmo parlare però solo di nomi citati nelle didascalie), Benny, fa il suo tragico ingresso per pochi attimi, quei pochi secondi che lo separano da una morte insensata, ma autentica nel suo puro verificarsi. Il passaggio dei due giovani armati fino ai denti è surreale come fattispecie, proprio perché anch’esso puro evento, non riconducibile ad altri eventi psicologici. Per comprendere tutte le follie omicide non basta considerare l’età degli assassini. Si può tentare una spiegazione “collettiva”, “sociale” come quella di Michael Moore in Bowling a Columbine (la sua idea di un paese dove la paura e le armi sono onnipresenti). Oppure la neutralità di Van Sant. Non spiega, non chiarisce, ma lascia un nodo alla gola per la spaventosa nitidezza degli eventi rappresentati verso i quali è impossibile rimanere indifferenti.

Articolo di Andrea Caramanna (reVision)

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