Simone Nebbia: il teatro sta alla società come i fotogrammi stanno a una fotografia

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Simone Nebbia è un critico teatrale dalla formazione totalmente letteraria. Scrive su Teatro e Critica, testata online di informazione teatrale, collabora con Radio Onda Rossa ed era uno dei redattori de “I Quaderni del Teatro di Roma”, periodico diretto da Attilio Scarpellini. Ha all’attivo progetti editoriali e radiofonici ed è, quando può, come lui stesso tiene a precisare, un cantautore.

 

Se volessimo cominciare un’analisi della situazione di crisi culturale del teatro italiano, da quali segnali dovremmo partire? Secondo te, la crisi del teatro potrebbe essere la diretta conseguenza di una crisi generazionale, d’identità e di opportunità? Quali sono i tempi e modi del suo sviluppo?

Il teatro è un filtro insostituibile per la società in cui si esprime. Di conseguenza non è possibile considerare un ipotetico suo stato di crisi senza considerare proprio la società cui si rivolge. L’appiattimento della profondità, dei costumi, non delle possibilità ma delle volontà di scelta, producono come conseguenza un teatro speculare, fortemente remissivo, padronale, gretto. I tempi e i modi sono ripidi e progressivi, seguono un letto di fiume sempre più vuoto di sassi da lasciare lungo il cammino, di pesci da portare fino al mare.

Si può affermare che la crisi del teatro possa dipendere anche da una mancanza di idee teatrali forti?

E tuttavia, qui, il verso cambia. Perché teatro resta in ogni caso la forma più adatta al racconto di una crisi in corso di svolgimento, per il fatto di nascere e convivere lo stato traballante della sparizione immediata: teatro è nel momento in cui smette di esistere, sul crinale tra buio e luce. Quindi il discorso sulle idee teatrali forti non mi appassiona, solo attendo che da questo periodo di decadenza, di risacca, diciamo, nasca ancora la volontà di raccontare storie, perché ce ne sono, solidificare la loro natura in uno spazio paradossalmente liquido come il teatro è ancora un valore portante della nostra società.

Qual è la funzione sociale del teatro oggi? Quali necessità soddisfa?

Lo ripeto: il teatro sta alla società come una sequenza di fotogrammi sta a una fotografia. Se la società reale è fissata in parametri immobilizzati che servono a riconoscerla e definirla, il teatro ha come compito sovrano quella di mostrarne invece la dinamicità, dalla stasi al movimento, con il fine di sovvertire quelle certezze di definizione, proprio per ogni volta ricrearle appena un passo più in là. Insomma esiste per dire alla società, a chi ne fa parte, che la sua esistenza è all’interno di un contraddittorio, denso, divenire.

Si può credere a un rinnovamento del teatro o siamo in attesa di un modello culturale che possa scuotere le coscienze?

Credo di aver già risposto, su questo.

Lo Stato sostiene il teatro in Italia? Se sì, ne beneficiano tutti?

Lo Stato non capisce, il teatro. Non può sapere cosa s’intenda per quella sberla della verità, la depravazione della propria certezza, lo Stato si occupa di regolamentare ciò che non può esserlo, da molto ormai ci rifletto su: si dovrebbe totalmente ripensare la formula del sostegno alla cultura, non si può pensare sia alla maniera di come si sostengono sanità, infrastrutture, non c’entra niente, altri parametri dovrebbero entrare in gioco. E amministratori in grado di percepire. Sarebbe un cambiamento epocale, estremo. Vedi un po’, un vero gesto artistico.

Le due misure più estreme ed urgenti da mettere in atto, secondo te

Restituire agli artisti una dignità professionale ma farlo su basi che gli stessi artisti possano sostenere. Ossia assecondando il loro senso di libertà, toglier loro di dosso un carico gravoso fatto di burocrazie, attese, domandine ministeriali, bandi, faticose rincorse per ottenere due finanziamenti. Questo uccide vocazioni, arretra la civiltà.
La seconda è riportare il teatro al centro della vita culturale, porlo come nel Teatro di Dioniso a contraltare di scelte che non si capiscono, usarlo a fini programmatici per evidenziare i problemi della collettività in forma artistica, sensibile, ossia dando credito alle molte possibili sfumature che in una forma piana, istruttoria, non sono percepiti se non da pochi.

Ha ancora senso mettere in scena i classici? O andrebbero “tolti di scena”? Quanto influisce la scelta politica di un direttore artistico?

Ma no, su. Dibattito inutile. Ora arriviamo noi freschi a dire che non bisogna fare i classici? Perché, cosa sono, vecchi? Classico ha a che vedere più con il contemporaneo che con la tradizione, è una forma standardizzata che risponde proprio alla messa in scena di problemi che la società ogni volta, ciclicamente, si ritrova di fronte. Quando vediamo Antigone o Lear stiamo parlando del rapporto tra uomo e potere nella forma più alta. Ne abbiamo ancora bisogno estremo.

Si può parlare di “dittatura teatrale” nel mondo delle arti in scena? Se sì, perché?

No, credo di non capire cosa si intenda. L’unica dittatura che mi viene in mente è quella dell’opera sull’artista. Che è una dittatura dolce, possibile e umana.

È possibile un “teatro della crisi” in cui artisti, spettatori e critica trovino un punto in comune?

È l’unica forma di teatro possibile, come scritto prima.

Quant’è importante lo spettatore a teatro? Quanto è necessario investire nella formazione di un pubblico consapevole?

Non solo è importante ma occorre far diventare non la formazione ma l’educazione teatrale imprescindibile: ho avuto molte esperienze in merito e con vari livelli sia di età che di preparazione, i risultati del dialogo sono sorprendenti; c’è curiosità, desiderio di mettere il proprio sguardo al servizio di un ascolto altrui, pian piano l’esperienza si fa modello per altri spettatori. Ecco, la sorpresa è che la mancanza di risorse economiche non ferma progetti che iniziano ad esistere pur senza sostegno, segno che ce n’è esigenza assoluta.

Prima di salutarti, ringraziandoti per la collaborazione, ti chiediamo un’ultima riflessione: qual è la tua missione teatrale? Come immagini la situazione culturale e teatrale italiana nei prossimi cinque anni?

Ho sempre inteso il mio impegno teatrale proprio come una Missione, con altre due “emme”: Malattia e Mestiere. E l’ho fatto perché tenere qui lo sguardo è stata da un lato una scelta e dall’altro un’imprescindibile occasione che mi nasceva per passione crescente. Ho cioè scoperto e deciso, per me come tramite, che il teatro avesse gli elementi per farsi filtro alla realtà contemporanea con profondità date anche dalla prossimità al divenire, come si diceva: la sua precarietà ci somiglia, modifica con il mutamento del tempo, essenzialmente, biologicamente. Per questo io guardo teatro. La mia funzione è di esserne testimone per chi non c’è e sguardo di confronto per chi c’è, come a volerci dire e ridire che davvero, c’eravamo, abbiamo visto.
Come la immagino? Appena avranno finito di chiudere tutto, appena avranno pensato di averci sconfitto, proprio allora torneremo e ancora di più. La cultura è un’esigenza intima, come mangiare e bere, la fai distrattamente, per questo la proiezione non può che essere positiva: saremo, sempre, un passo avanti a chi non s’immagina nemmeno, cosa accade quando le luci si spengono e inizia un altro tempo, un altro spazio. Quello che ci siamo inventati, e che con chissà quali forme continueremo a inventare.

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