Nuotando nel futuro: una società dopata può ancora salvarsi?

Ho lasciato la pretesa d’immortalità

ad una Germania faustiana e decadente,

ho legato la mia aspirazione alla flessibilità

d’un muscolo, al centimetro più giusto, stringente.

La storia raccontata in Ogni cinque bracciate, tratto dall’omonimo poema di Vincenzo Frungillo e messo in scena la sera del 7 luglio alle Praterie del Gigante del Bosco di Capodimonte, è una storia dura e triste che potrebbe anche sembrare piena di forza e determinazione, quasi felice nelle vittorie conseguite, ma che tale non è nello svolgimento e nell’epilogo. Questa è la storia di quattro anime azzurre, azzurre come l’acqua in cui nuotano, Ute, Lampe, Karla, Renate, quattro ragazze tedesche che donano tutte se stesse al proprio paese, la Germania Est degli anni ‘70 tutta protesa a imporsi nel mondo attraverso lo sport. Chi è per lo sport ha le masse al fianco, chi è per la cultura ha le masse contro, perciò i governi sono sempre per lo sport e contro la cultura, scriveva Thomas Bernhard nel 1975, denunciando l’uso strumentale dello sport da parte del potere. Lo spettacolo ci parla appunto del sacrificio da parte di queste ragazze che credevano di gareggiare per se stesse ma che, dopate e sfruttate, finiranno solo per trasformarsi, ammalarsi e talvolta morire per il proprio paese. Sul palco due attrici, Anna Ferzetti e Fabrizia Sacchi, in un continuo dialogo tra loro che a volte si fa unisono, raccontano in italiano ma con qualche battuta in tedesco, accompagnate da tre musiciste, le Coma Berenices (chitarre e tastiere) e Annalisa Madonna (voce), molto efficaci con le loro melodie post-rock a sottolineare i punti emotivi della storia. Tutte e 5 le donne sono in accappatoio blu, pronte a immergersi in una scenografia molto particolare, una serie di pannelli in pvc su cui si riflette l’acqua di una piscina. Anime il cui azzurro non resisterà allo schiacciante controllo dello Stato che tutto divora.

Controllo statale che ritroviamo anche nello spettacolo messo in scena la sera dell’8 luglio nella Sala Assoli del Teatro Nuovo, 2084 – L’anno in cui bruciammo Chrome, a partire dal titolo che richiama non tanto velatamente il 1984 di orwelliana memoria oltre che naturalmente la raccolta di racconti dello scrittore cyberpunk William Gibson. Ci viene presentato un mondo culturalmente ed economicamente colonizzato dalla Cina, le parole di uso comune sono cinesi e non inglesi, la scena è scarna, bianca, vuota. Ci accoglie un funzionario statale, che ci invita a renderci conto di cosa sia e cosa non sia la realtà: ci offre una mela, se la mangiamo questa resta una mela? Torna in mente la domanda posta altrove da Paul Auster: se un ombrello si rompe, resta sempre un ombrello? Controllo statale, dicevamo: qui è lo stato a decidere cosa fai, che lavoro darti, quali e quanti sono i tuoi crediti sociali. La realtà è povera, chi vive è ormai schiacciato dalla necessità di sopravvivenza. Vediamo una famiglia in cui i genitori si arrabattano alla bell’e meglio per dare un futuro ai propri figli, nonostante questi vivano in un altrove virtuale che ci pone lo stesso interrogativo di prima: cosa è reale? Il figlio perde le sue giornate nel metaverso, rincorrendo un amore inesistente, la figlia balla davanti a sconosciuti per guadagnare qualcosa nel sogno di cambiare corpo, perché il vero corpo è nel cervello. Lo spettacolo scorre così, tra reale e virtuale, forse un po’ lungo e a volte scontato e già superato da quello che accade intorno a noi, in un dialogo interattivo col pubblico: prima la mela, poi il carbone, il biscotto della fortuna, l’elemosina. Dove sta andando l’umanità? Boh, rispondeva Mao in un’intervista. Basta staccare la spina, che tutto finisce.

 

Lucio Carbonelli

la forza della gentilezza e il potere dell'immaginazione

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