La Napoli borrelliana, una Napoli al cubo: gessato elegante, catena d’oro, e pancia da fuori [Teatro Civico 14, 3/3/2024]

«Napoli è il luogo ideale per perdere la speranza».
(Mimmo Borrelli, autore/regista/attore/poeta)

 

Prima di cominciare lo spettacolo, ancor prima di calarsi nei feroci panni dell’attore, Mimmo Borrelli esce sul palco per una chiacchiera informale col pubblico, a piedi nudi, occasione più unica che rara di guardare negli occhi gli spettatori, sapere con chi si ha a che fare, quasi a voler instaurare un dialogo a doppio senso, prima che si spengano le luci e il sipario si apra per lo spettacolo vero. L’uomo Borrelli va a raccontare quindi la storia che di lì a poco metterà in scena in forma di oratorio, da solo, accompagnato dalla musica potente e materica dell’imprescindibile e insostituibile Antonio Della Ragione.

In italiano perfetto e non modificato da inflessione dialettale, Borrelli racconta a beneficio di chi evidentemente non riuscirà a cogliere tutto ciò che accade, anche se qui non ci troviamo di certo davanti alla lingua de La Cupa, lingua arcaica e oscura più che di parole fatta di suoni, sciabordii, tracimazioni. La storia è semplice, composta di due personaggi a rappresentazione di una Napoli antica ma ancora moderna: il Vesuvio e Pulcinella, ambedue fuoriuscenti da gola e spirito di Borrelli. Il Vesuvio si nasconde dietro il verde della fertilità, regala frutti e pace apparente, ma in realtà sta solo dormendo, ossimorico come non mai  è ormai pronto all’esplosione e alla devastazione, è incazzato nero, ha spirito luciferino, non riesce più a sopportare questa Napoli ferma e decadente, vuole svegliarsi, eruttare, distruggere e purgare tutto… Ma c’è un problema: un autobus di ragazzini in gita proprio sulle sue pendici, e allora come fermare la tragedia? Sarà Pulcinella a provarci, a rappresentanza della Napoli più confusionaria e chiassosa, raccontando del matrimonio più cafone possibile, un matrimonio neomelodico napoletano: colombi ovunque, piatti infiniti, torte alte come palazzi,  il brodo di polpo somministrato direttamente in vena, un rutto che trova sfogo solo lì dove dovrebbe uscire ben altro, il fegato che piange lacrime napoletane. Non si sa come, apparirà poi un killer che era solo un bambino che voleva giocare con la fionda, si finirà poi con un gioco di palla, una canzoncina, una stellina accesa, a mo’ di speranza, forse.

Borrelli fa tutto questo da solo, prendendo sulle sue spalle la Napoli antica e moderna, una Napoli al cubo moltiplicata per mille: a petto nudo, le catene d’oro aggrovigliate tra la peluria, il ferro in mano pronto a sparare, ma chi. La Napoli di Borrelli spara e uccide, ma prima di tutto se stessa. Una Napoli schizofrenica dalla mille lingue e dialetti, una Napoli che parla a se stessa, prima Vesuvio e poi Pulcinella, ma la Livella è una sola, diceva il Principe, e la fine alla fine arriva per tutti. Impressionante come al solito il lavoro che Borrelli fa su stesso, nella modulazione della voce e nell’espressione del corpo, un lavoro così denso e potente da non poter lasciare indifferente nessuno, nel bene e nel male, nella risata e nel pianto, nell’emozione e nella commozione. Chiedo scusa alla prima fila, dirà alfine il Borrelli nuovamente uomo una volta smessi i panni del Borrelli attore, quasi a voler continuare il dialogo con il pubblico, in tutta umiltà e piacere. Ma che scuse servono, davanti a tale spettacolo di saliva e sudore che, sì, è un vero e proprio capolavoro, un rap dialettale fatto di luoghi che più sono comuni più sono veri, un testo da riproporre sempre, ogni giorno, molto più efficace e puntuale di qualsivoglia canzone prima in classifica nello spiegare la realtà in cui si è immersi fino al collo, ogni giorno, per sempre. Un testo che può salvare, questo, sì. Grazie a chi l’ha scritto e continua a donarcelo.

Lucio Carbonelli

la forza della gentilezza e il potere dell'immaginazione

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