Hybris, fuori dalla porta ci sono gli altri: Antonio Rezza, Flavia Mastrella e un nuovo concetto di habitat

Hybris, l’ultimo lavoro di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, segna il passaggio, necessario e aspettato, da una fase all’altra del percorso artistico del duo (se proprio vogliamo sinteticamente definirlo per fasi). Aspettato perché questo spettacolo, che avrebbe dovuto debuttare nel 2018, ha avuto diversi rinvii e necessario perché non si identifica con la rappresentazione lineare del tempo cronologico ma, al contempo, produce il suo concetto nell’esperienza esistenziale dell’individuo. A prima vista, dunque, potrebbe apparire frammentario ma, in realtà, è un lavoro molto più coeso e complesso del precedente Anelante.

Non ci sono più i drappi di Flavia Mastrella né tantomeno corde e lacci ma una porta robusta, che Rezza si trascina per tutto il palco, e pochi altri oggetti ai margini della scena. Inizialmente appare, al centro, come bara e poi, man mano, assumerà tante sembianze fino a divenire un metal detector. Una porta che delimita un dentro e un fuori.
La soglia, il luogo per eccellenza in cui non si può abitare. Eppure è un luogo, che richiede una presenza, una testimonianza, una narrazione. Si potrebbe anche dire che ognuno di noi è una soglia, con il proprio andare e venire tra dolore e gioia, fatica e leggerezza, tra i due estremi che essa unisce e, al tempo stesso, separa, segnandone i confini, anche se deboli: il dentro e il fuori, il mondo visibile di fuori e quello invisibile di dentro. Dimensioni che hanno una connessione segreta, perché si richiamano e si riflettono l’una nell’altra.

 

La porta, vera protagonista di questo lavoro, in un certo senso è assimilabile alle porte che si aprono e chiudono di “Inland Empire” di David Lynch che moltiplicano le possibilità di mondo. Però in Lynch l’uomo prova a inseguire, a percepire l’Anima del Mondo e a immaginarlo nella sua totalità. Qui prova a respirare, a gioire, a lamentarsi e a piangere. Per il Rezza di Hybris – almeno secondo la mia personale interpretazione – il tempo presente non fa parte di un processo che lo vede legato a un passato e a un futuro ma, anzi, la temporalità si veste di una ripetizione eterna. Non è un tempo lineare ma circolare, dell’identico che torna sempre. Un tempo ulteriore, per dirla con Agamben, che misura una sfasatura rispetto al precedente e che genera uno scarto rispetto alla nostra rappresentazione.

La hybris, messa in scena dal corpo e dalla vocalità di Rezza, è quella della Genealogia nietzschiana, è il progetto borghese di sottomissione della natura e, dunque, abbrutimento della nostra stessa natura. Quindi – per citare la nota per la stampa – è “aprire la porta sulle altrui incertezze, sull’ambiguità, sull’insicurezza dell’essere e la meschinità dello stare. Chiunque sta in un punto, detta legge in quel punto.”

E le altrui incertezze, le altrui paure sono corpi da ferire (nello specifico di Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Perrini, Enzo Di Norscia, Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli) e lo stesso Rezza è una vittima-carnefice ferito dallo Stato, che ha deciso durante la pandemia chi doveva stare fuori e chi dentro dei confini imposti, ma anche da una serie di possibilità annientate financo da Dio.

L’irrompere del nuovo è una ferita che taglia in due la linearità dell’esistenza (bellissima la parte delle “presentazioni”), una strada che deve essere, talvolta, necessariamente percorsa ma che può portare a risultati imprevedibili e surreali. Se, infatti, lasciamo fuori dalla porta il senso delle cose, l’incontro con l’altro diventa bestiale, un’esperienza tragica. E allora ci chiudiamo nelle nostre case per paura di farci infettare, contaminare dall’Altro, alziamo muri, vetri attraverso cui possiamo vedere il mondo ma senza dialogare con esso.

Foto copertina di Annalisa Gonnella

Visto al Teatro San Ferdinando di Napoli il 28 novembre 2023

Potrebbero interessarti anche...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *