Eyes Wide Shut: recensione del film di Kubrick che compie vent’anni

Una giovane coppia dell’alta società newyorchese. Ricchi, di bella presenza, genitori di una adorabile figlioletta. Lui medico affermato, lei ex direttrice di una galleria d’arte, ora madre a tempo pieno. Ecco William Harford (Tom Cruise) e la sua dolce metà, la splendida Alice (Nicole Kidman), soggetti/oggetti di un idilliaco quadretto familiare. L’idillio si frantuma quando all’interno della coppia si insinua il dubbio del tradimento. La fantasia mai realizzata di un amore extraconiugale. Alice confessa al marito un suo “sogno” ormai passato: una notte di sesso con uno sconosciuto. Incapace di reagire verbalmente alla provocazione, di inventarsi un suo “sogno”, Bill preferisce fuggire. Uscire nella notte per correre al capezzale di un paziente ormai morto. In questo modo ha inizio un lungo viaggio/incubo attraverso un mondo sospeso tra realtà e sogno, tra veglia e sonno. Un mondo popolato da strani ed illogici personaggi che converge, seguendo le linee del tempo e dello spazio, in una enorme casa poco fuori i confini della città di New York. Un luogo “a parte” dove tutte le ossessioni e le pulsioni umane si trovano riunite. Sesso, morte, disperazione e vita convergono quasi forzatamente in questo enorme buco nero. Il viaggio di Bill si trasforma in un viaggio soggettivo, quasi subliminale. Un percorso ad ostacoli alla scoperta del rapporto che lega il mondo e la persona, l’individuo e la società, l’io e l’es.

Eyes Wide Shut è il film della crisi. Una crisi percepibile sia all’interno che all’esterno del testo cinematografico. Crisi che già è evidente nel titolo, con il contrastante accostamento tra wide e shut, due lemmi che nel normale utilizzo della lingua inglese non si trovano mai l’uno accanto all’altro. Solitamente in inglese gli occhi sono wide open, e mai wide shut. “Occhi aperti chiusi” sarebbe la traduzione più fedele del titolo. Una dicotomia scritta, un forzato avvicinarsi di elementi opposti, che segna ed esaurisce il significato del film. Una prima crisi è dunque quella del linguaggio scritto. Nel rito di passaggio tra il linguaggio scritto, nella sua forma complessa di romanzo, e il linguaggio cinematografico, è nascosto il secondo sintomo dell’inquietudine. Come è noto tutti i film di Kubrick sono tratti da romanzi o novelle pubblicate in precedenza. Il cinema del regista americano è un cinema del già letto. Una manipolazione di materia letteraria già preesistente. Lo scarto tra la materia letteraria e la materia cinematografica è il cinema di Stanley Kubrick. Le sue ossessioni, le sue manie, la sua poetica cinematografica. Nei precedenti processi di passaggio dalla parola all’immagine lo scarto era ben evidente. Così come evidente era l’autorità assoluta di Kubrick sul suo lavoro. Shining è in definitiva più conosciuto come film diretto da Kubrick che come romanzo scritto da Stephen King. Eyes Wide Shut è tratto da un breve romanzo scritto nel 1926 dall’austriaco Arthur Schnitzler, “Doppio Sogno”. Una breve storia ambientata nella Vienna di fine ottocento. La meccanica narrativa del testo letterario è riproposta quasi fedelmente da Kubrick nel suo film. E’ evidente in questo appiattimento la crisi del regista nei confronti della manipolazione del testo scritto. C’è chi ha parlato di debolezza di Kubrick nei confronti della materia del romanzo, pare però più coerente al personaggio Kubrick un moto di rispetto del regista nei confronti del romanziere. Topoi come il labirinto temporale, spaziale, mentale, l’ossessione per gli specchi e le superfici riflettenti (il desiderio inconscio in ciascuno di noi di vedersi vedere), l’assimilazione tra il reale e l’immaginario, tra il sogno e il fatto, la dicotomia sesso/occhio, sono facilmente rintracciabili sia nella filmografia di Kubrick che nell’opera di Schnitzler. E’ altresì evidente che, in questo caso di calco quasi perfetto tra le due espressioni artistiche, le differenze balzino immediatamente all’occhio. Simbolo di queste differenze e luogo tipicamente kubrickiano è la scena che si svolge nel bagno all’inizio del film. Stanza da bagno che, come spesso accade nel cinema del regista di 2001 Odissea Nello Spazio, vede evidenziarsi in maniera inequivocabile il nesso tra lo “sguardo” (bagno come la sala degli specchi), il voler assolutamente vedere oltre, e la morte (come accade in Shining e Full Metal Jacket). Andando in questo modo a formare un triangolo di parole, sesso – occhio – morte, dentro al quale si sviluppa e chiude tutta la filmografia di Kubrick. Forma geometrica semplice sul cui periplo si muovono tutti i personaggi dei suoi film.

La crisi del linguaggio scritto, e della sua manipolazione, si riflette anche nella crisi della narrazione cinematografica. In Eyes Wide Shut ogni possibile punto di climax è rimandato ad infinitum. Questo continuo movimento di deferimento è evidente anche nella lunga serie di coitus interruptus dei quali è vittima il protagonista maschile. Sempre sul punto di consumare il suo desiderio sessuale e sempre costretto a rimandarlo ad un dopo che non arriva mai, neppure alla fine del film. Anche la scena dell’orgia nella casa di campagna, momento che potrebbe avvicinarsi ad un ipotetico punto di climax, si trova “spiazzata” all’interno della narrazione. Posta com’è al centro del film, questa sequenza onirica non fa che accentuare la messa in dubbio delle più elementari regole narrative. Questa breve scena, tanto discussa anche a livello di mass media, mette in mostra un altro tipo di crisi che esula dallo vicenda raccontata dal film. La crisi della censura cinematografica. Delle sue ragioni e dei presunti valori morali ai quali si appella. In Europa e negli Stati Uniti si assiste a due diversi film. La censura americana ha infatti fatto in modo che venissero inserite, proprio durante la scena dell’orgia, delle figure umane create artificialmente a computer. Questi “falsi” personaggi hanno il compito di celare parzialmente tutta la serie di atti sessuali che si svolgono davanti agli occhi di Bill Harford durante il suo vagare tra le stanza della magione rinascimentale. In un momento in cui tutto, ma proprio tutto, viene mostrato non si riesce in realtà a vedere più nulla. L’atto sessuale rimane un tabù visivo. Anche il senso della vista manifesta apertamente in questo film il suo momento di smarrimento. Realtà virtuali, realtà immaginate, realtà posticce ed appositamente (ri)create. L’occhio non è più in grado di distinguere. Il cinema di fine millennio, infarcito di spettacolari e costosissimi effetti speciali creati al computer, non fa altro che aumentare la confusione.

Tutte le varie tipologie di crisi espresse all’interno ed all’esterno della pellicola trovano il loro rappresentante nel personaggio interpretato da Tom Cruise. Figura che incarna perfettamente un altro tipo di smarrimento. Lo smarrimento dell’uomo (post)moderno, sempre alla ricerca di una propria identità di gender. Gli “eyes” del titolo diventano per omofonia il plurale di “I”. Un uomo che sembra aver smarrito il suo ruolo centrale nell’universo fallocentrico disegnato ad inizio secolo da Sigmund Freud. E’ una donna mascherata a salvare il povero Bill dalla setta che pratica il sesso libero. E’ la sconosciuta a sostituirsi a Bill alla fine del baccanale. E’ lei a sacrificarsi al suo posto, permettendogli in questo modo di allontanarsi sano e salvo dalla villa. La seconda parte del film si gioca in pratica tutta sul manifesto disagio della coppia gender/genre. Bill si butta alla ricerca della mascolinità perduta a causa della donna che lo ha salvato. Lo scopo, neppure molto celato, di questa indagine è quello di riconquistare il suo ruolo fondamentale di uomo/fallo per potersi poi ripresentare come tale al cospetto della moglie. E’ durante la sua indagine che emerge la crisi del genere. Ben presto Bill si trova ad indagare, novello Marlowe della psiche, su di un crimine mai commesso, alla ricerca di un colpevole mai esistito. Come ben spiega verso la conclusione del film l’anfitrione suo amico, la morte della ragazza è una morte accidentale, dovuta esclusivamente a cause naturali. La scomparsa del suo amico pianista è dovuta essenzialmente ad improvvisi impegni lavorativi di quest’ultimo. Nulla può essere più credibile della menzogna ben raccontata. Se non vi è crimine, se manca il colpevole, non esiste neppure un genere ben definito. Eyes Wide Shutcome thriller mancato.

L’ultimo segnale di malessere Kubrick lo riserva alla critica cinematografica. Eyes Wide Shut è in grado di mettere in discussione, di stravolgere, le solite, e forse ormai obsolete, griglie interpretative. Appare alquanto inutile infatti chiedersi se Eyes Wide Shut è un capolavoro, quando ogni cosa, all’interno ed all’esterno del film, spinge verso una messa in dubbio del concetto stesso di capolavoro. Capolavoro cinematografico, artistico o letterario. Chi decide?
Da un regista che amava in modo maniacale il gioco degli scacchi una messa in scacco dello spirito critico. Era il minimo che ci si potesse aspettare dall’opera ultima di un regista atipico che, dopo avere aperto gli occhi a tante persone appassionate di cinema, si è accontentato di chiudere i suoi per sempre.

Articolo di Fabrizio Pirovano (reVision)

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