Sineglossa: le dinamiche produttive arenano il teatro

Sineglossa

Sineglossa per poetica è distante della pop art, dal cinismo, dal nichilismo e dal divertissement.

Compagnia Sineglossa è il progetto di Silvio Marino (musicista), Simona Sala (performer) e Federico Bomba (regista) che indaga il rapporto tra i linguaggi del contemporaneo e i contesti sociali in cui i lavori vengono prodotti.
L’obiettivo è quello di contribuire a trasformare la Cultura in culture: rendere cioè plurale tutto ciò che è ancora pensato al singolare, con una forte attenzione al dialogo tra chi produce e chi fruisce.

Se volessimo cominciare un’analisi della situazione di crisi culturale del teatro italiano, da quali segnali dovremmo partire? Secondo te/voi, la crisi del teatro potrebbe essere la diretta conseguenza di una crisi generazionale, d’identità e di opportunità? Quali sono i tempi e modi del suo sviluppo?

Cominciamo col dire che Sineglossa lavora soprattutto all’estero e questo mi sembra già un bel segnale da cui partire. Io credo che la crisi del teatro italiano sia stata dettata dalla mancanza di un ecosistema. Siamo immersi in un sistema completamente disorganico, in cui non ci si occupa né della formazione degli artisti né del pubblico, mentre si continuano a fare ‘spettacoli’, qualcuno per tradizione, alcuni per necessità, altri per convenienza. Questo fa sì che sia sempre più difficile incontrare artisti in grado di produrre segni scenici innovativi e pubblico in grado di decodificarli.
Allo stesso tempo ai teatri si richiedono i numeri: richiesta sacrosanta, se l’ecosistema fosse sano; ma con che pubblico dovrebbero fare i numeri questi teatri, visto che praticamente nessuno sa dell’esistenza del teatro contemporaneo e se chi lo produce si pone spesso in modo autoreferenziale? Li faranno con prodotti sensazionalistici, con testimonial, con casi politici, con scandali, con finte innovazioni che facciano rumore. E così si creano spettacoli-mostri. La crisi è frutto della mancanza di una strategia organica, di teatri e artisti che devono costantemente gestire l’emergenza. In uno Stato come quello in cui viviamo, così pieno di contraddizioni, possono emergere buone intuizioni artistiche, ma sicuramente tali intuizioni non possono poi trovare terreno fertile per il proprio sviluppo. Quindi: vivendo di emergenza e nella scomodità, come artista, ti poni delle domande che poi dovresti andare a sviluppare altrove, dove il conflitto è minore e hai possibilità di essere sostenuto dal pubblico e dalle istituzioni.

Si può affermare che la crisi del teatro possa dipendere anche da una mancanza di idee teatrali forti?

In parte di certo è vero, ma, come dicevo prima, credo che molto dipenda dall’ecosistema inesistente. Le idee possono essere forti, ma si arenano nelle dinamiche produttive.

Qual è la funzione sociale del teatro oggi? Quali necessità soddisfa?

Direi: quale esigenza soddisferebbe se ci fosse. Se si potesse fare e vedere teatro in maniera capillare si potrebbero costruire intorno ad esso comunità di riflessione e di azione. In realtà, non credo che questa sia una esclusiva prerogativa del teatro, sebbene il teatro, grazie alla sua relazione immediata con lo spettatore, sia una delle modalità espressive più adatte a mettere in connessione gli artisti e il pubblico e l’essere umano con se stesso. Non è un caso che i corsi di teatro continuino ad essere affollati, che gli adolescenti, i giovani e gli adulti amino fare teatro: senza dubbio c’è una componente narcisistica, ma credo anche ci sia una forte esigenza di uscire da sé, interpretando un testo o una partitura fisica, per capirsi meglio.

Si può credere a un rinnovamento del teatro o siamo in attesa di un modello culturale che possa scuotere le coscienze?

A me non interessa un rinnovamento del teatro nello specifico. Come Sineglossa ci siamo re-inventati in mille modi e mille volte, perché il nostro obiettivo non è fare teatro, ma proprio scuotere le coscienze, o meglio, permettere alle coscienze di essere critiche. Il teatro è solo uno dei modi possibili, sebbene uno di quelli che amiamo di più. Ogni azione deve inevitabilmente partire dalle condizioni materiali che ciascun contesto offre e il contesto italiano non offre (e non credo lo farà a breve) la possibilità di raggiungere davvero i pubblici con il teatro. Credo che sia importante, in
quanto artisti, immaginarsi anche altri sistemi di riferimento in cui operare con le competenze che il teatro di ha fornito.

Lo Stato sostiene il teatro in Italia? Se sì, ne beneficiano tutti?

Direi poco e malissimo, sempre per una mancanza di visione strategica. Il teatro dovrebbe essere connesso alla formazione, alle città, al turismo, ai disabili, alle imprese, alla comunicazione, alla spiritualità, etc. Il teatro, come ogni altra forma di espressione, potrebbe e dovrebbe essere pervasivo di ogni sfera di azione dell’individuo, ma non mi sembra che sia questa la direzione che le istituzioni stanno scegliendo di intraprendere.

Le due misure più estreme ed urgenti da mettere in atto, secondo te/voi.

1) Fare entrare l’arte in maniera trasversale in ogni Ministero, fino addirittura ai progetti di sviluppo infrastrutturale dell’Anas.

2) Formare gli artisti a competenze trasversali, per fare in modo che siano in grado di operare in contesti meno convenzionali

Ha ancora senso mettere in scena i classici? O andrebbero “tolti di scena”? Quanto influisce la scelta politica di un direttore artistico?

Certo che ha senso, a patto che gli artisti che ci si confrontano siano in grado di renderli attuali. Ogni pretesto è buono per instaurare un dialogo con un pubblico e i classici sono un ottimo pretesto. Se i direttori artistici avessero tutti una coscienza politica credo potrebbero mettere in piedi delle programmazioni molto più efficaci, potrebbero disegnare un panorama organico di riflessione intorno al quale il pubblico potrebbe orientarsi. Penso, come esempi ben riusciti, a due festival molto diversi con due direttrici con una coscienza politica molto forte: Teatri di Vetro e Santarcangelo dei Teatri.

Si può parlare di “dittatura teatrale” nel mondo delle arti in scena? Se sì, perché?

Non mi sento affatto di parlare di dittatura, la dittatura esiste in un sistema forte e quello teatrale è un sistema debolissimo. Quello che osservo è che ognuno cerca di portare l’acqua al proprio mulino e c’è poca cooperazione, a causa dell’esiguità delle risorse e della naturale indole umana in queste condizioni.

È possibile un “teatro della crisi” in cui artisti, spettatori e critica trovino un punto in comune?

Difficilmente potrebbe avvenire in questo momento di crisi economica e di pensiero. Occorre mescolare le competenze e uscire dai recinti prettamente teatrali, aprire panorami inaspettati e collaborazioni con professionisti coi quali non si sarebbe mai immaginato di lavorare prima, quando il sistema ancora reggeva.

Quant’è importante lo spettatore a teatro? Quanto è necessario investire nella formazione di un pubblico consapevole?

Come dicevo prima, la formazione del pubblico è cruciale. Sineglossa ha aperto un progetto che si chiama Scuola di visioni del contemporaneo, i cui allievi sono motivati non tanto a imparare delle tecniche, ma a diventare autori di un proprio progetto. In questo modo, anche se non sceglieranno di diventare artisti, capiranno quanto è complesso creare un’opera e da pubblico saranno in grado di interfacciarsi con ciò che vedono non più come meri giudici (battimani o fischianti), ma come parte integrante del dialogo che c’è tra un’opera e chi la guarda. Saranno in grado di empatizzare ed avranno strumenti critici più affilati che gli consentiranno di entrare nel gioco che gli si propone.

Extra: Prima di salutarvi, ringraziandovi per la collaborazione, vi chiediamo un’ultima riflessione: qual è la tua/vostra missione teatrale? Come immaginate la situazione culturale e teatrale italiana nei prossimi cinque anni?

La nostra missione, come si sarà capito, è portare il teatro fuori dal teatro. Per quel che succederà nei prossimi cinque anni, sinceramente ho difficoltà a immaginare cosa realmente accadrà. Abbiamo a dire la verità molti desideri, che ci sembrano tutti utopie per le quali vale ancora la pena combattere.

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