Le baccanti di Andrea De Rosa, oscure e crudeli

Le-Baccanti-regia-Andrea-De-Rosa-foto-Marco-Ghidelli-7-800x533“Il dio è qui.”

La prima cosa che si nota è un palco immenso, che sembra non avere fine. La scena è profonda, si perde nel buio. Serve un palco grande, per i riti dionisiaci. Per la sfrenatezza, la follia, le danze e l’eccesso.

In scena al Teatro Carignano dal 5 al 17 dicembre per il Teatro Stabile di Torino “Le baccanti”, il grande testo della tragedia classica di Euripide. L’unica tragedia che ha per protagonista un dio. Anche se, forse, ancor più centrali sono in questo caso gli scontri verbali degli uomini e le loro fragilità. Dioniso non è una divinità qualsiasi. È colui che governa la sregolatezza, il vino, il sesso e l’estasi, il dio celebrato tra gli altri da Nietzsche. È nato da Zeus e Semele, una donna umana.

Dioniso, che deve dimostrare a tutti di essere, pur nato da una mortale, un dio.

La regia è di Andrea De Rosa (Premio Speciale Ubu), già famoso per regie di testi greci come “Le troiane” di Euripide e una messa in scena del singolare “Encomio di Elena” del sofista Gorgia da Lentini. Ha inoltre dato vita a un progetto denominato “teatro filosofico”, concentrandosi particolarmente sulle opere di Platone e Heidegger.

Dioniso è qui interpretato da un’eccezionale Federica Rosellini, sottilmente ambigua e androgina come nelle rappresentazioni ideali di Dioniso: alto, magro e dai capelli lunghi. Una divinità che è uomo e donna. Rappresenta il trasformismo stesso, per questo è possibile un interessante parallelismo con il lavoro dell’attore, un uomo che si fa altro e che esce da se stesso.

Le baccanti sono le donne che egli sprona a fuggire sul monte Citerone, dove tengono riti in suo onore. Tra loro Agave (Cristina Donadio, che regala negli ultimi minuti un’interpretazione intensa e disturbante), madre di Penteo (Lino Musella), re di Tebe.

Proprio Penteo rifiuta di riconoscere il dio come tale, ripudiando anzi la dismisura dei suoi riti (che religione è, una che permette alle donne d’ubriacarsi?). Il finale, straziante, è celebre: nonostante gli avvertimenti costanti dell’indovino Tiresia (un Marco Cavicchioli che incarna in modo estremamente credibile la mancanza di pudore di cui il vecchio è accusato dal sovrano) – “Dobbiamo ballare”, ripete, come fosse un mantra, una nenia, “o saremo perduti” – e di Cadmo, suo nonno (Ruggero Dondi), Penteo verrà punito da Dioniso per la sua blasfemia. Sarà proprio sua madre Agave la prima a ferirlo, convinta attraverso allucinazioni di avere davanti un leone, e al suo gesto seguirà una carneficina a opera di tutte le altre baccanti, che lo porterà alla morte.

Un re atipico, che nella prima scena si presenta di spalle alla platea, seduto su una poltroncina. Passa quasi in secondo piano rispetto al dio, centrale, che urla. Non a caso.

La componente oscura di questa storia prende qui nuova vita. È uno spettacolo che non si può che definire intenso. È intenso il modo in cui Dioniso grida chi è, grida la sua smodatezza, sospira nel microfono, e attorno tutti danzano con vestiti e costumi (di Fabio Sonnino) e tacchi. Sono intense le luci (di Pasquale Mari), a tratti a intermittenza, che accecano e coinvolgono. Sono intense le scene (di Simone Mannino) e le atmosfere. È intensa la furia del coro. Assordanti e azzeccate le musiche martellanti (composte da G.U.P Alcaro e Davide Tomat) che a tratti fanno tremare il pavimento e le poltrone in platea – specialmente nella geniale messa in scena del terremoto narrato da Euripide.

O il deus-ex-machina finale, che arriva verso la parte anteriore della scena dal fondo del palco con un vero e proprio muro mobile.

Andrea De Rosa riesce a rendere contemporaneo un testo classico e al contempo a restituirlo allo spettatore intatto, senza deformarne gli intenti. A un regista non si può davvero chiedere più di questo.

Il palcoscenico sembra non avere fine, come la violenza, la crudeltà, la disperazione animale. Come Dioniso stesso, il dio dell’assenza di limiti.

Che, mentre tutto muore e si autodistrugge, continua a danzare.

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