Il ramo spezzato: Karen Green su David Foster Wallace

“È dura ricordare le cose tenere con tenerezza.”

Il 12 settembre 2008 David Foster Wallace – uno degli autori più originali, sinceri, intelligenti, sperimentali e sorprendenti che la storia della letteratura abbia mai posseduto – si tolse la vita nella sua casa a Claremont, in California. Aveva 46 anni.

Sua moglie, Karen Green, era uscita, e soltanto più tardi scoprì il tragico evento. Fu lei a trovarlo. Fu lei a scoprire il corpo di suo marito appeso a una trave, e a tirarlo giù.

Questa è storia nota.

Ma a dieci anni da quel giorno possiamo leggere anche l’altra parte della vicenda. La parte intima, personale, la più dolorosa: la storia di Karen Green (che è prima di tutto una poetessa, un’artista, una studiosa), la donna che a David riuscì a donare serenità e felicità vera. Il suo racconto è contenuto ne “Il ramo spezzato”, edito in Italia da Baldini + Castoldi – in edizione limitata e numerata – e tradotto da Martina Testa, storica traduttrice anche di tante opere di DFW.

Va detto ed è inevitabile: inizialmente, davanti a un libro del genere, si tende ad essere scettici, specialmente se si ammira profondamente la letteratura di Wallace. C’è il dubbio (la paura) che si tratti di operazione commerciale, che si vogliano ancora fare soldi sfruttando il dolore e la curiosità morbosa dei lettori. Ma basta aprire la prima pagina per rendersi conto che non è affatto così, e che questo libro è soprattutto un ragionamento schietto e commovente sulla perdita di chi si ama, sul suicidio, sulla vita di tutti i giorni accanto a una persona che soffre di depressione. Il nome di David, in 188 pagine, non compare mai. Eppure è chiaro che il destinatario di quelle breve lettere o prose, tra pillole e cani, è sempre e soltanto lui. C’è dentro tanto amore. Ma anche risentimento, rabbia. Frasi spezzettate e piccoli patchwork che mostrano tenerezza e confusione.

Almeno adesso è

Lo voglio incazzato con i politici, a disagio, che cerca di manipolarmi per ottenere favori che gli farei comunque. Lo voglio che cerca gli occhiali, che tenta di non venire, che fa – parola orrenda – del diarismo, con un pezzetto di spinaci fra il canino e la gengiva, che mi rimprovera per la logorrea, o perché non sto zitta.

Non lo voglio in pace.”

Il linguaggio della Green è poetico, delicato ma mai etereo. Le sue parole sono piuttosto corporee, materiche. È la descrizione di un mondo a colori che si fa sbiadito, di un idillio spezzato.

È la narrazione di una sagoma vista con la coda dell’occhio dall’altra parte del lavandino mentre ci si lava i denti. Del desiderio di far collassare i suoi genitori l’uno sull’altro per vedere se ne verrà nuovamente fuori lui. Del vedere quel volto amato in qualsiasi cosa, persino nella forma di una conchiglia sulla spiaggia. Dell’andare dallo stesso medico da cui andava lui per gli stessi sintomi e per lo stesso modo di non sopportare la vita – da quando lui non c’è più. Di quello stesso medico che dice: se fosse stato così tra virgolette perfetto per te probabilmente sarebbe ancora qui.

Del desiderio di cambiare casa, di strappare via la moquette, per non sentire più tutte le parole intrappolate tra le mura.

“Il ramo spezzato” è una vita spezzata, un marito non perfetto ma che profumava di vicinanza alla divinità. Perché la divinità non è altro che lo strano e assurdo intendersi di due esseri umani.

È un senso di colpa impossibile da eliminare. Un incubo di responsabilità in quello che è accaduto.

Vista a ritroso, la loro storia presenta dei punti ciechi forse non colti, non al momento giusto.

“Lui ha detto: Sto invecchiando morirò ho le mascelle cascanti, e io ho riso.”

Frasi a cui forse non bisognava ridere. Battute che forse non erano battute.

Perché era uscita, quel giorno? Forse si sarebbe potuto evitare. Forse, in fondo, era stata colpa sua. Forse avrebbe dovuto capire in tempo che. Forse. Forse. Forse.

Domande destinate a non ricevere risposta. Quel che resta sono i ricordi, la dolcezza così difficile da rievocare, gli anni che passano.

“Il ramo spezzato” di Karen Green è un memoir, una riflessione, una raccolta di brevi prose poetiche, di stralci, di deliri, di visioni, di disegni. Il disperato tentativo di andare avanti.

“Potrei amare un altro viso, ma perché?”

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