Marco Canzoneri: oggi è in crisi l’intero sistema culturale-educativo-didattico

marco canzoneri

Marco Canzoneri è teorico di estetica pragmatica, delle prassi aistetiche della skené e di teatro contemporaneo, curatore indipendente e performer. I suoi studi spaziano dalle esegesi omeriche ai formati performativi, dal “teatro del corpo” al rapporto tra tragedia e “dramma non tragico”. Fra gli ideatori del Teatro Mediterraneo Occupato di Palermo, spazio dedicato alle avanguardie e alle relative ricerche sceniche, politiche ed etiche. Si occupa di politiche culturali e di nuove pratiche di produzione artistica. Collabora con l’università degli studi di Palermo e artisticamente con il regista Claudio Collovà. Performer per il teatro e per l’opera lirica contemporanea.

Una realtà politica è inevitabilmente una realtà culturale che deve essere intesa come realtà organica essenzialmente spaziale. Abituati, come siamo, a pensare le “pratiche politiche” in maniera astratta e ad individuare lo spazio come contenitore e “contenente”, o come vuota estensione misurabile e non “misurata”, difficilmente sfuggiamo da quell’inerzia critica che ci rende quasi impossibile una corretta esegesi del sensibile. Lo spazio non è neutro; poco ha a che fare con lo spazio geometricamente inteso. Gli spazi sono “emozionalmente tonalizzanti”, dominati sempre da una certa “atmosfera” che possiede una sua personale tonalità emozionale che ci suggerisce impressioni e disposizioni d’animo; così come una scena o una messa in scena, così come, per analogia, un territorio circoscritto o una certa realtà territoriale di un determinato “spazio”.

La politica non è astratta, a-partitica o oltre-partitica, è un concreto agire all’interno di una certa comunità. Le politiche culturali degli ultimi anni sono figlie “naturali”, affette da “progeria”, di certe pratiche politiche radicate e radicali, cresciute in certe atmosfere e svezzate in certi spazi tonalizzanti. Esiste un sistema culturale in crisi ed edulcorato. Veniamo incitati all’innovazione, alla creazione, a fare impresa, quando il sistema cultura è vecchio e anacronistico, quando ci si muove cercando di costruire un qualcosa su un cumulo di rovine. Stiamo vivendo dal 2008 una logorante “crisi economica”, restando spettatori di un avvilente spettacolo che ci “dis-vela” il fallimento dell’economia politica e delle politiche culturali in termini meramente economici. Le attività statali finanziano, e spesso in maniera relativa, una “macchina teatrale”, e culturale, obsoleta e moribonda che cerca il più possibile di “sopravvivere” producendo spettacoli e pratiche culturalmente irrilevanti le cui finalità educative sono sconosciute perché inesistenti. Certe volte bisogna che i “rimaneggiati” finanziamenti servano a “coprire le spese” di quel “sistema-teatro” clientelare in cui vigono ancora obblighi e obbligazioni partitici; altre volte la paura e l’incertezza del precario sistema economico-sociale e la perdita di significante dello stesso svolgono un ruolo decisivo nell’incapacità relazionale con pratiche e progetti di ricerca; la crisi del sistema-teatro in se stesso, nel suo sapere, nel suo linguaggio, nella sua ragione d’essere. Il teatro e il suo sistema epidermico bisognano di ricerca: che sia ricerca scaturita dalla sintesi di pratiche avanguardistiche, che sia ricerca connessa a studi sociali o psico-sociali, che sia ricerca meramente filologica o filologicamente applicata, che sia ricerca antropologica. E in generale bisognano di certe “pratiche” che riconoscano come fondamentali strutture processi produttivi e finalita’ didattico-educative capaci di interessare, sconvolgere e quindi toccare lo spettatore, uno spettatore incuriosito che può divenire inquisitore.

Appare chiaro che oggi ad essere messo in crisi è l’intero sistema culturale-educativo-didattico. Se, infatti, il teatro è un bene pubblico, così come dovrebberlo esserlo scuola e università, sarebbe bene compiere un processo decostruttivo, smontando e rimontando delle architetture che possano infine giovare di una rinnovata vita sincretica. Se si vuole educare i cittadini, o i futuri cittadini, attraverso lo studio delle arti e lo studio applicato e filosofico delle stesse, e attraverso pratiche di estetica pragmatica, è bene che si cominci a rinnovare il corpo polistrutturato e delle scuole, con progetti didattici pertinenti condotti da periti aggiornati e capaci, e delle università e delle accademie, convogliando parte dei finanziamenti nel rinnovo e nella rigenerazione di discipline didattiche e creando nuovi laboratori e stage a base nazionale e internazionale, e dei teatri stessi, avviando produzioni che ricerchino reali finalità artistiche e che tengano conto di un lavoro mai avulso ma svolto in continua adiacenza con l’intero sistema didattico-culturale ed essendo, altresì, capaci, di rinnovare l’impegno per scambi di competenze e per l’integrazione dell’uso di residenze artistiche e progetti affini.

E ritengo, infine, importante l’inclusione, in un progetto comune e comunitario, di quegli spazi ritenuti erroneamente pseudo-periferici che fungono da avamposti d’avanguardia per quanto riguarda metodologie di ricerca performative e metodologie di ricerca politica. Un lavoro collettivo, in senso ampio, che riesca a creare sempre più interesse, sempre più spettatori possibili, una richiesta sempre crescente, un apparato critico diffuso, e percorsi formativi rinnovati. Creare un “corpo politico” che acquisisca un linguaggio capace di esprimere al tempo stesso la condizione e il possibile che la incarna; un linguaggio che lungi dal servire a descrivere ci aiuti piuttosto a costruire verità politiche e quindi etiche. Creare consapevolezza e propriocezioni artistiche; la crescita e lo sviluppo di spettatori/attori consapevoli dunque appare necessario. La “scena deve essere totale”. Di conseguenza si dovrebbe invero pensare all’abbandono di quelle cattive abitudini che vogliono vederci “affidati” del tutto a quei processi di secolarizzazione che, negli anni, hanno soltanto “spostato” certe sovranità delle politiche culturali lasciando intatte le forze economiche che ne governano l’agire, e immaginare una vera e propria “profanazione” per restituire all’uso ciò che attualmente non è disponibile e che vive una radicale “separazione”. “La politica è il teatro della politica, teatro dove interagiscono sia gli attori che gli spettatori”, diceva Hannah Arendt; la politica è in effetti l’agire, l’interazione di più uomini che dall’impulso dell’azione stessa, da una “rivoluzione” consapevole rinnovano una nascita. Consapevolezza e corrette esegesi del contemporaneo sensibile perché l’economia possa prendere “forma” di scienza dei comportamenti. Rinnovare i bisogni, pretendere che se ne soddisfino dei nuovi. Nella discrasia delle “complessioni” del carattere e del fisico “melanconico”del “corpo culturale” che ci si presenta oggi esistono esperienze di “discrepanza” che esperiscono sollecitazioni a rivolgersi a “disposizioni d’animo differenti” da quelle atmosfere opprimenti che si attraversano. L’auspicio è che divenga normalità di agire.

 

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