La gioia di Pippo Delbono, il lavoro intenso dedicato al piccolo grande Bobò

Ricordo ancora, come una magnifica epifania, il primo impatto col teatro di Pippo Delbono. Era il 2006 e vidi al Teatro Mercadante di Napoli Questo buio feroce. Le accecanti pareti bianche su cui si stagliavano delle sacche di sangue, Nelson a terra, nudo e scheletrico, con addosso solo una maschera africana, Bobò e Gianluca vestiti da Arlecchino. Era uno spettacolo sulla morte e il lutto e il bianco, che permeava tutta la scena, rappresentava sì la sala d’attesa di un ospedale ma era anche il colore del lutto orientale.

La gioia è come se chiudesse quel discorso, portato poi avanti con spettacoli potenti come Dopo la battaglia (con un Delbono che urla al microfono “ma sì, qui mettici il mare” dopo aver parlato di un paese alla deriva) o Orchidee con le musiche di Enzo Avitabile.

È la storia di un incontro, quello tra Bobò, microcefalo sordomuto che entrò a sedici anni nel manicomio di Aversa, e Pippo che, quarant’anni dopo, fece lì un laboratorio teatrale, lo conobbe e se lo portò con sé a recitare nella sua compagnia.

La gioia fu l’ultimo spettacolo di Bobò, morto poi nel 2019. Ma, per Delbono, oggi è l’occasione per elaborare il suo personalissimo lutto e per parlare di sé, ancora una volta, a cuore aperto.

“Dov’è la gioia?”, si chiede Delbono scendendo in platea e, probabilmente, a fine spettacolo, lo spettatore sa perfettamente dove trovarla in questo lavoro. È nella condivisione, negli occhi dei suoi compagni di scena che, ancora una volta, presenta al pubblico. Nelson, Gianluca, Pepe, Dolly, ognuno con le proprie esperienze di dolore e di emarginazione, un tempo soli al mondo ma che ora si sono fatti casa.

Pippo prova ad andare avanti orchestrando, come sempre, il suo gruppo. Non c’è nulla di nuovo, è sempre lo stesso spettacolo, forse più etereo e meno crudele. Nel teatro interiore di Delbono ognuno di noi può cogliersi come immagine riflessa, in un’atmosfera talvolta claustrofobica, in cui potremmo aver paura della visione stessa.

Il punto nodale di un lavoro di Delbono non è la rappresentazione di un sentimento ma il suo attraversamento attraverso una serie di scarti. Quello tra la follia e il sogno, tra la carne e l’anima, tra la paura di vivere e la morte. Un’amica mi ha fatto presente che, nello spettacolo quando Delbono racconta della sua attrazione per il circo, dice di aver paura di tutto quello che non resta per sempre. Non è la nostra stessa paura? E non è quella paura che il teatro autentico deve insegnarci a elaborare e a esorcizzare?

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