Tomato Soap, la teatronovela musicata da Iosonouncane

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Il Nuovo Teatro Sanità di Napoli ha ospitato nei giorni 19 e 20 novembre Tomato Soap. Teatronovela sulla violenza di genere in un’unica puntata, diretto da Lydie Doeuff, musicato da Iosonouncane.
Lo spettacolo vede in scena due pupazzi, uomo e donna, animati da due “attori-artigiani”, Ariela Maggi e Giulio Canestrelli, uniti nel duo artistico dei Manimotò.

Il nome della compagnia ricorda il moto delle mani che manipolano con garbo e perizia la materia: sono le mani esperte di Maestri Artigiani, creatori di pupazzi, o di altri fantocci, e sono anche quelle degli attori che, appropriandosi di quegli stessi arnesi scenici, infondono loro un’anima.

Nel “teatro in figura” – genere in cui lo spettacolo di Ariela e di Giulio si inscrive – capita spesso che i burattini, i pupazzi, le marionette o gli oggetti più disparati acquistino una capacità evocativa autonoma, diventino ‘fettici’, divincolandosi dal corpo d’attore, sviluppando insomma una propria specifica identità che finisce per imporsi su quella dell’interprete: proprio questa dinamica sembra sia suggerita dall’ultima porzione dello spettacolo, quando i due attori, dismettendo a vista le ‘maschere’, si confessano – muti – lo stupore di un epilogo imprevisto, comunicando soltanto attraverso un intenso gioco di sguardi allucinati.

Procediamo con ordine, da quando entrambi si travestono in pubblico, l’una indossando i panni di Gianni e l’altro quelli di Gilda: uno scambio di genere dunque, ovvero l’intingolo essenziale che insaporisce – e che confonde – ancor di più questa “zuppa di pomodoro”.
Nel mondo animato delle marionettes portés, dunque, si aprono delle feritoie attraverso le quali lo spettacolo guarda fuori da se stesso, all’ingranaggio che mette in moto la finzione teatrale, al processo di manipolazione operato dagli attori.

Tomato Soap racconta di un innamoramento che nasce felice, si evolve con il seguito delle nozze e della vita matrimoniale, e che improvvisamente conosce uno scacco, un’imprevista deflagrazione di violenza domestica che incrina il rapporto irreversibilmente.
La forza dello spettacolo risiede nella capacità di inserire in un contesto de-realizzante – uno spazio fisico abitato da pupazzi manipolati a vista dagli attori, e privo di indizi di temporalità – una struttura narrativa solida, la fabula di una vicenda sentimentale ‘tipo’, povera di intrecci sostanziali, vivacizzata da una mimica espressiva e grottesca e irrobustita dal sonoro di Jacopo Incani, in arte Iosonouncace. Non è un caso che il musicista sardo, durante gli anni di lavorazione su Die (secondo lavoro discografico), collabori con la compagnia dei Manimotò: il titolo del suo ultimo album (Die è “giorno” in sardo e “morte” in inglese) racchiude il senso di una relazione di complementarietà degli opposti (inizio e fine) che interessa anche la nervatura poetica dello spettacolo musicato: qui amore e morte rappresentano un duale indissolubile nel contrasto.

Durante l’esecuzione, accanto agli attori-pupazzi e alla loro esasperata espressività, concorrono a produrre significato, in vece del linguaggio verbale – del tutto assente dalla partitura drammaturgica – oggetti “morfemi”, unità minime di significato: il tavolo da cucina, la borsa da lavoro sopra o sotto il tavolo, le rose che, all’indomani di ogni lite tra coniugi, aumentano di numero nel vaso – segno di un ormai consolidato ‘rituale del perdono’ – e che, mutando funzione, si trasformano da contrassegno di riconciliazione in ‘nerbo’ che ferisce e che divide.

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