Sotterraneo: togliamo la parola crisi dal tavolo!

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Teatro Sotterraneo è un collettivo di ricerca teatrale (Firenze, 2005). Con 11/10 in apnea viene segnalato al Premio Scenario ‘05. Produce, fra gli altri: Post-it, Dies irae, L’origine delle specie e Homo ridens. Dal 2008 fa parte di Fies Factory. Nel 2012 dirige Il Signor Bruschino per il Rossini Opera Festival. Negli anni riceve riconoscimenti tra cui Premio Lo Straniero, Premio Speciale Ubu e Premio Hystrio-Castel dei Mondi, oltre a BE Festival 1° Prize (UK) e Silver Laurel Wreath Award (Mess Fest di Sarajevo). Dal 2013-14 diventa compagnia residente presso l’ATP di Pistoia e cura il Daimon Project, un percorso di ricerca pluriennale sul tema della vocazione.

1) Se volessimo cominciare un’analisi della situazione di crisi culturale del teatro italiano, da quali segnali dovremmo partire? Secondo te/voi, la crisi del teatro potrebbe essere la diretta conseguenza di una crisi generazionale, d’identità e di opportunità? Quali sono i tempi e modi del suo sviluppo?

Togliamo la parola crisi dal tavolo, perché introduce un’idea di temporaneità che non ha più alcuna credibilità, né per il teatro né per la congiuntura economica, che somiglia piuttosto a una vera e propria ristrutturazione dei rapporti di forza – tutt’al più giustificata dalla crisi. I linguaggi della scena sono in declino da decenni perché non possono competere quantitativamente né economicamente coi media, per formati, tecnologia, diffusione. Il segnale sono le sale semivuote e il generale senso di “antichità” che accompagna i discorsi sul teatro. Ora, però, proprio l’antichità (ovvero un’esperienza evolutiva millenaria) e la capacità di esistere a prescindere dalla quantità (intesa come business e grandi numeri di consumatori) potrebbero essere un punto di forza dello spettacolo dal vivo, la dimensione più efficace della sua indipendenza. Questo però richiede di reinventarsi il rapporto col pubblico, coi soldi, con gli altri media. Tempo e modi sono quindi imprevedibili – come del resto gli esiti, nulla garantisce che il teatro per come lo conosciamo sia destinato a estinguersi.

2) Si può affermare che la crisi del teatro possa dipendere anche da una mancanza di idee teatrali forti?

No. In teatro accadono cose che la maggior parte della gente – inclusa parte della fetta colta e consapevole – neanche immagina. Il punto è farsi ascoltare dal pubblico potenziale e riuscire a competere in una mappa di pratiche culturali che faticano altrettanto ad affermarsi come elementi indispensabili nella quotidianità dei cittadini occidentali (dalla letteratura al cinema).

3) Qual è la funzione sociale del teatro oggi? Quali necessità soddisfa?

Le solite “banalissime” necessità: spiritualità laica, ovvero un accesso creativo e non religioso al sovrumano, inteso come sentirsi parte di una collettività più vasta di sé nello spazio e nel tempo; bellezza, ovvero stare su una dimensione di ricerca di qualcosa che aumenta e al contempo critica il reale; cittadinanza, ovvero partecipare alla vita culturale di una città, di un paese, di un continente, esserne appunto cittadini e non solo elettori/spettatori/consumatori.

4) Si può credere a un rinnovamento del teatro o siamo in attesa di un modello culturale che possa scuotere le coscienze?

Il teatro si rinnova continuamente, molto più di altre forme. Il rinnovamento è spesso sganciato da logiche di profitto per cui è anche più difficile da leggere, interpretare e riconoscere perché non ci sono misuratori di successo e riuscita – difatti gli stessi critici e addetti ai lavori per registrare i cambiamenti devono monitorare tutto continuamente. Per scuotere le coscienze purtroppo serve la Terza Guerra Mondiale, ma sembra che qualcuno ci stia già lavorando.

5) Lo Stato sostiene il teatro in Italia? Se sì, ne beneficiano tutti?

Lo stato lo sostiene non come un bene comune, un diritto, un elemento costitutivo dell’identità e della qualità di vita del paese, ma piuttosto come un servizio aggiuntivo che non ci si può (ancora) permette di tagliare. Ne beneficia chi sta nei parametri quantitativi e qualitativi previsti dai finanziamenti, non potrebbero (e non sarebbe giusto) beneficiarne tutti. C’è poi qualcuno che, pur avendo numeri e qualità, rimane fuori, a volte per scelta.

6) Le due misure più estreme ed urgenti da mettere in atto, secondo te/voi.

Non essendoci crisi (temporanei) non ci sono urgenze (dettate dall’emergenza) ma ci sono per noi tre utopie (ovvero una robusta idea di futuro). 1: stimolare la diffusione di una cultura teatrale in tutti i sensi, e per farlo si può partire introducendo qualche ora settimanale di teatro nelle scuole, che sarebbe anche un dono incalcolabile alla formazione dei ragazzi rispetto al lavoro di gruppo, l’espressione di sé, il confronto con gli altri, la possibilità di vivere vite vicarie dentro una rappresentazione ecc. 2: costringere il sistema teatrale ad aprirsi di più alla contemporaneità, per svecchiare l’idea che si ha in giro di teatro e riportare le live arts al centro degli stimoli intellettuali delle nuove generazioni. 3: defiscalizzare a favore del teatro, spingendo i privati a vedere il proprio contributo manifestarsi nella crescita del teatro della loro città, un luogo dove ritrovarsi e portare opere/attori/artisti da altri luoghi – credo che a molti darebbe soddisfazione, come fosse una forma di azionariato popolare.

7) Ha ancora senso mettere in scena i classici? O andrebbero “tolti di scena”? Quanto influisce la scelta politica di un direttore artistico?

Avrà sempre senso, il punto sono le soluzioni formali. I direttori artistici fanno un lavoro difficilissimo e abbiamo visto operare bene e male in modo del tutto sganciato dalle procedure di nomina. L’ideale sarebbe una rapporto virtuoso in cui la politica sceglie una persona per competenza, carisma, progettualità, e poi ne sostiene le idee senza condizionamenti, ferma restando una scadenza dei mandati che permetta di valutare i risultati sulla base degli obiettivi.

8) Si può parlare di “dittatura teatrale” nel mondo delle arti in scena? Se sì, perché?

In che senso? Proviamo a ribaltare la domanda: il teatro è il luogo fisico, la dittatura deve essere delle opere, che più ibridano forme e linguaggi, meglio è.

9) È possibile un “teatro della crisi” in cui artisti, spettatori e critica trovino un punto in comune?

E’ quello a cui si lavora ogni giorno ormai da decenni. Certo che NO, non è possibile, ma tutto il processo di ricerca e confronto tiene in piedi una scena teatrale che in molte sue parti è ricca, complessa e vitale.

10) Quant’è importante lo spettatore a teatro? Quanto è necessario investire nella formazione di un pubblico consapevole? Prima di salutarvi, ringraziandovi per la collaborazione, vi chiediamo un’ultima riflessione: qual è la tua/vostra missione teatrale? Come immaginate la situazione culturale e teatrale italiana nei prossimi cinque anni?

Rispetto ai nuovi linguaggi della scena e al teatro di ricerca in genere, lo spettatore non è più solo spettatore ma coautore, polo di senso dell’intera impalcatura di uno spettacolo. Quindi investire nel formare le persone, stimolarle, motivarle, trasmettere l’idea che il teatro sia un luogo del nostro tempo è più che importante, è semplicemente decisivo. Fra cinque anni sarà come adesso, bisognerebbe parlare di come sarà fra 50 anni… Di fatto la cosiddetta “comunicazione” sta producendo un rumore di fondo che sempre più spesso si sostituisce alla cultura, e lo sviluppo tecnologico allontana dall’esperienza tridimensionale, in carne e ossa delle performing arts quindi la partita si gioca qui: cosa può la scena teatrale che mass-media e infosfera non possono? Credo che fra 5 o 10 anni la scena potrà ancora aggregare le persone attraverso esperienze collettive non mediate, che ne sono rimaste due: teatro (inclusa la musica dal vivo) e stadio (che sempre più spesso viene disertato per rimanere sul divano) – se aumenterà il bisogno di partecipazione, allora aumenterà la centralità dello spettacolo dal vivo… ma anche la coscienza democratica, la capacità di organizzazione politica ecc… quindi lasciamo perdere…

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