Teatro dei Venti: gli artisti vivono una forte depressione

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Teatro dei Venti nasce come gruppo di ricerca teatrale di stanza a Modena ma, sin da subito, diversifica l’attività in quattro tronconi: produzione degli spettacoli, progettazione socio-culturale, formazione e organizzazione di eventi di natura teatrale. Il linguaggio espressivo adoperato consente allo spettatore di essere vittima di un incantesimo e testimone di un evento unico ed irripetibile. Tra i loro spettacoli ricordiamo Senso Comune, finalista al Premio Scenario 2011, InCertiCorpi, Premio Presente Futuro 2013, Premio CrashTest 2014, Premio del Pubblico CrashTest 2014, e Malaparata, dove prestano attenzione al teatro di strada.

Risponde alle domande Stefano Tè, regista e direttore artistico, che ha sintetizzato la linea del gruppo.

 

Se volessimo cominciare un’analisi della situazione di crisi culturale del teatro italiano, da quali segnali dovremmo partire? Secondo te/voi, la crisi del teatro potrebbe essere la diretta conseguenza di una crisi generazionale, d’identità e di opportunità? Quali sono i tempi e modi del suo sviluppo?

Il segnale più preoccupante è certamente la scarsa affluenza di pubblico, che dovrebbe far porre l’attenzione su una concezione di teatro probabilmente da rinnovare. Per portare la gente a teatro bisogna tornare tra la gente. Questo si sa. Ma non bastano i progetti specifici, studiati per accedere a mega finanziati, spesso sporadici, privi di una qualsiasi analisi dei fabbisogni e soprattutto di una frequentazione approfondita sul territorio. I teatri potrebbero rientrare a breve nella lista dei “non luoghi”, perché privi della prerogativa d’essere relazionali, identitari.
La crisi del teatro ha a mio parere cause diverse, dove ogni generazione si tiene la propria parte di responsabilità. Certamente, chi oggi siede ai vertici dei grandi teatri, tutto fa fuorché formare i direttori di domani. Chi oggi apre un teatro, fonda una compagnia o un festival, lo fa in piena autonomia, non di certo grazie ad un ricambio generazionale. Il ricambio ci sarà perché imposto da chi crede di avere i mezzi per farlo. Non perché si tramanda un mestiere. Un sapere. Credo quindi che la generazione dei quarantenni, cioè dei “fai da te”, ha la sola colpa di non aver fondato milioni di piccoli teatri nelle città e nei paesini di tutta Italia. Luoghi antropologici, capaci di conservare gli elementi culturali della comunità, che in base a questi spazi hanno costruito la propria identità e i rapporti con le persone che vivono il territorio.

Si può affermare che la crisi del teatro possa dipendere anche da una mancanza di idee teatrali forti?

Non credo sia questo il problema. Gli artisti vivono una forte depressione, mortificati da bandi e premi. È venuta a mancare la figura del teatrante produttore, di chi, del mestiere, cerca con cura il creatore, innovatore, nei sottoscala e nei centri sociali. Non si mette in condizione l’artista di esprimere al meglio le proprie visioni, perché sa che sarà carne da macello. Se gli va bene sarà preda di qualche stabile di produzione, che usa, mangia e getta. Oppure, peggio, legato a progetti specifici che dipendono dalla volontà di un funzionario pubblico. Fino a quando non ci sarà una seria e accurata politica di tutela del patrimonio culturale del domani, non avremo artisti con idee teatrali forti, ma solo artisti repressi.

Qual è la funzione sociale del teatro oggi? Quali necessità soddisfa?

Il teatro che si lascia contaminare, che si mischia alla comunità, quello soddisfa la propria funzione. Entrare in relazione con le perferie, con le sponde della società, i confini, i limiti. Tutto lo scarto serve al teatro per convertire energie e generare bellezza, e intanto rigenerarsi.

Si può credere a un rinnovamento del teatro o siamo in attesa di un modello culturale che possa scuotere le coscienze?

Il modello culturale è davanti ai nostri occhi. C’è un fare teatro che da venti anni almeno si muove nell’oscurità. Tanti sono i centri di produzione e formazione, autoprodotti, che inizialmente per necessità e poi per scelta, hanno intrapreso una politica comunitaria di teatro. Questi teatri sono pieni di pubblico. Hanno corsi e attività di formazione spalmate dal centro alle periferie. Dai bambini agli anziani. Tanta gente frequenta il teatro, senza accedere ai luoghi convenzionali. Senza acquistare il posto in poltrona fa entrare il teatro nella propria vita.

Lo Stato sostiene il teatro in Italia? Se sì, ne beneficiano tutti?

Lo stato sostiene il teatro in Italia. Si. Probabilmente ha concesso molto in passato, senza norme capaci di verificare l’uso delle risorse, ad esempio il reale svolgimento delle attività dichiarate. Senza indagare con cura sulle dinamiche di scambio, di favori, che hanno ammalato il teatro. La causa della crisi del teatro è proprio il finanziamento pubblico. Le giovani realtà hanno poche risorse perché alle vecchie difficilmente vengono tolte del tutto, nonostante tutto. Quindi è un fiume in piena che non trova sfogo. Le giovani realtà, per non morire, si devono attrezzare e trasformare quel vecchio teatro alimentato a finanziamenti, in una impresa culturale, che vive anche senza i finanziamenti.

Le due misure più estreme ed urgenti da mettere in atto, secondo te.

Verificare la funzione reale di tutti coloro che hanno un sostegno pubblico (o spazio pubblico) ed eventualmente annullare i contributi (o convenzione per lo spazio pubblico)
Investire attenzione (non per forza risorse) su attività dichiarate “marginali” ma che effettivamente sostengono e giustificano la presenza della parola TEATRO nel lessico italiano.

Ha ancora senso mettere in scena i classici? O andrebbero “tolti di scena”? Quanto influisce la scelta politica di un direttore artistico?

I classici sono il teatro. Tutta l’opera contemporanea si nutre di classici. A partire dalla tragedia greca. Sono il riferimento per una creazione. Le linee guida. Il principio.
Non so cosa significa “scelta politica di un direttore artistico”. Un direttore artistico disegna una linea poetica, che di conseguenza diventa politica, solo se ben narrata. Deve, a mio parere, in occasione di un festival, proporre sul proprio territorio ciò che è “rappresentazione del contemporaneo”, al di la dei propri gusti. Perché ha un compito nella comunità, che non è ospitare nel proprio cartellone ciò che piace a lui, ma ciò che è oggi il teatro e magari le visioni di domani.

Si può parlare di “dittatura teatrale” nel mondo delle arti in scena? Se sì, perché?

No, dittatura no. Ci sono delle dinamiche da innovare e qualche pensionamento da anticipare.

È possibile un “teatro della crisi” in cui artisti, spettatori e critica trovino un punto in comune?

Il teatro della crisi ha generato innovazione e rapporti nuovi tra luoghi e persone. Gli spettatori non esistono più. Ci sono le persone che frequentano il teatro. Talvolta da spettatori. Si tende ad una relazione più articolata e complessa. Che costerebbe troppo a qualsiasi teatro istituzionalizzato. Quindi, gente come noi, trova spazio. Si mette a lavoro e con calma, cautela, tenacia, cambia le abitudini del teatro moderno.
La critica si sta accorgendo di questo cambiamento e segue con attenzione.

Quant’è importante lo spettatore a teatro? Quanto è necessario investire nella formazione di un pubblico consapevole?

Lo spettatore non esiste più e non va formato. Dobbiamo invece formare artisti, critici, professori, direttori, ad una nuova relazione con il pubblico.

Prima di salutarvi, ringraziandovi per la collaborazione, vi chiediamo un’ultima riflessione: qual è la vostra missione teatrale? Come immaginate la situazione culturale e teatrale italiana nei prossimi cinque anni?

Credo trapeli da quanto detto nelle risposte, ma aggiungo che la nostra immaginazione ci mostra un teatro che chiede ascolto e discreta presenza, anche il silenzio. Il teatro che verrà sarà ricco di gente.

 

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