Sonic Youth: biografia, album e recensioni

I Sonic Youth sono l’ultimo grande “dinosauro” del rock,; tuttavia, molte sono le peculiarità che distinguono il gruppo newyokese dagli altri giganti del business. Anzitutto, non hanno mai avuto un “frontman”, un Mick Jagger o tantomeno un Axl Rose. La loro evoluzione stilistica è stata costante, anche se ognuno ha opinioni diverse su quale sia il loro disco migliore (in verità i critici optano a maggioranza per “Daydream Nation“) . Hanno sì, “canonizzato” un certo modo di suonare, e per questo basta vedere qui da noi in Italia tutte le piccole copie che esistono dei SY, ma di questo loro modo di intendere il rock non hanno mai fatto un feticcio né un esercizio di stile. Hanno mantenuto, accanto al progetto originario Sonic Youth, una miriade di intenzioni e collaborazioni “laterali” impossibili da elencare tutte: dai Ciccone Youth (i SY che coverizzano Madonna), ai dischi solisti di Thruston Moore e Lee Ranaldo, alle Free Kitten di Kim Gordon, ai Two Dollar Guitar di Steve Shelley, alle collaborazioni “intellettuali” con L.M.Connors, Y.Eye dei Boredoms, fino ad arrivare a quella con Jim O’Rourke…. Con estrema tranquillità, i SY differiscono dai Rolling Stones perché tutti i loro dischi possono essere giudicati “belli” o “brutti”, ma nessuno potrà mai dire che non siano in qualche modo interessanti.

In bilico tra la passionale attrazione per il Rock’n’Roll e la necessità quasi patologica di smantellarlo, i 18 anni di Sonic Youth trascorsi dal primo EP raccontano una storia segnata dal rifiuto della formalità “rock”, dal tentativo di trasformarne il linguaggio portandolo oltre i limiti convenzionali, in una continua evoluzione sonora che ha pochi paragoni. I Sonic Youth, rumoristi intellettuali, nell’affidare la loro estetica sonora allo sperimentalismo noise, tra No Wave e furore punk, avanguardia e “rumore”, sono riusciti ad incorporare le dissonanze e le tensioni che li contraddistinguono in strutture fondamentalmente “pop”; un gruppo animato dall’urgenza di “scoprire” e “scoprirsi”, con le figure carismatiche di Thurston Moore e Kim Gordon, capaci di essere tanto cerebrali quanto viscerali, proprio come la musica che esprimono.
E così, la band negli anni ha segnato l’evoluzione della scena underground americana, ne è stata il metronomo e ne ha marcato i successi, dagli iniziali opportunistici accostamenti alla scena hardcore (“art-core”, preciserà Kim Gordon con un azzeccato neologismo), sino alle ultime evoluzioni sonore insieme a quel marpione di Jim O’Rourke; i Sonic Youth hanno accarezzato il successo commerciale e sono infine usciti allo scoperto nelle loro intenzioni sperimentatrici con la SYR, in un percorso artistico mai portato a compromessi. Moore confesserà: “sin dall’inizio, volevamo avere una tipica formazione rock – due chitarre, un basso ed una batteria – per rivoluzionarne completamente le convenzioni“. Ci sono riusciti, ed hanno creato un suono che non è possibile attribuire ad altri.
In questo approfondimento cercheremo di fotografare le tappe di una evoluzione sonora impareggiata, consci del fatto che nulla è paragonabile all’ascolto.

Introduzione di Salvatore Patti e Luca Pagani

Gli anni indipendenti (1983-1988)

Confusion is Sex (Neutral, 1983)
di Luca Pagani
3/5

Tutto inizia da Confusion is sex, ferraginoso, lancinante, “sudato” debutto per i Sonic Youth appena usciti dalle performances nelle sale espositive di New York. Distante é un altro aggettivo che gli si addice, distante da tutte le loro successive produzioni. Da qui in poi capirete perché i Pavement, ad esempio, non hanno nulla a che fare con il termine lo-fi, o quanto debbano gruppi come Unwound, o insospettabili come Yo La Tengo, alle sonorità dei quattro SY. Tutto il disco sembra “costruito” dal vivo, ma é solo un’illusione sentire Kim Gordon più vicina a certi dischi solisti di Nico (“Desertshore” e “Marble Index”) che a Patti Smith o credere di trovarsi nello stesso momento ad immaginare movimenti e comportamenti del gruppo su un palco distrutto da mille lotte e dalla sguaiatezza “root” di “I wanna be your dog” degli Stooges. Ho sempre creduto alle mie orecchie quando mi dicevano che questo era un disco, nello spirito e non certo nella mente, più “blues” che punk, e che sofferenza e assoluta necessità di espressione li avevano spinti ad una tale rabbia e violenza. Situazioni “limite” che avrebbero trovato sfogo negli anni a venire.

Bad Moon Rising (Homestead, 1985)
di Lorenzo Sciabica
3/5

Anticipato dal 7″ Death Valley ’69, nel 1985 viene licenziato Bad Moon Rising che continua, a distanza di due anni, il percorso tracciato da Confusion Is Sex, imboccando una strada che porta i SY ad un suono più concreto, più rock se così possiamo dire; di certo, però, siamo ancora ben lontani concettualmente da lavori come Daydream Nation. In B.M.R. affiorano spettri inquietanti come la claustrofobica I’ m insane o Satan is boring accanto a brani, come la splendida Brave men run (in my family), tendenzialmente più vicini a lavori come Sister. Questo continuo gioco di rimandi a dischi precedenti o posteriori può far capire come B.M.R. sia un disco di transito, le stesse strutture dei brani non sono mai fisse, come nel caso di I love her all the time: esordisce con un riff di chitarra molto sporco e garage che si sublima in un delirio di Thurston Moore reso celestiale dal lavoro alle chitarre. Forse non fondamentale per un primo approccio ai Sonic Youth, ma utile, oltre che piacevole, per chi volesse approfondire lo “studio” sulla Gioventù Sonica.

Evol (SST, 1986)
di Aurelio Pasini
4/5

Terzo album per i Sonic Youth, il cui seguito si sta espandendo a macchia d’olio tra gli appassionati di alternative rock di tutto il mondo, e primo per la SST di Greg Ginn. Rispetto ai dischi precedenti, è rintracciabile in “EVOL” una più spiccata attitudine pop (per quanto pop possano essere i SY), evidente soprattutto in brani come l’iniziale Tom Violence o la conclusiva Bubblegum. Il capolavoro è comunque la lunga Madonna, Sean and Me (conosciuta anche come The Crucifixion of Sean Penn o Expressway to Yr Skull), una delle composizioni più memorabili del gruppo, non a caso definita da Neil Young “la più grande guitar song mai scritta” (e se lo dice lui…). A livello di curiosità, segnaliamo la presenza del basso di Mike Watt (Minutemen, fIREHOSE) nell’inquietante In the Kingdom #19.

Sister (SST, 1987)
di Francesco Giannici
5/5

Schizophrenia e Tuff gnarl. Con queste due colonne portanti così simili tra loro “Sister” apre nel 1987 una nuova fase nella discografia dei Sonic Youth. Con “EVOL” si completa il trapasso, e “Sister” rappresenta già il frutto più che maturo del cambiamento: con una ritmica più solida fornita da Steve Shelley, i quattro inseriscono tutte le sperimentazioni del passato in un substrato fieramente rock senza perdere, come accadrà talvolta in futuro, la componente più sentita e originale dell’avanguardia e del “work in progress”. Per riassumere, il passato fa capolino dai pezzi noise-atonali di Kim Gordon mentre il futuro si prospetta nei solidi tessuti chitarristici di Catholic block. E proprio l’apertura Schizophrenia (come Tuff gnarl e tanti altri pezzi, dalla maestosa Cotton crown alla furiosa Stereo sanctity) mostra il compimento di questa nuova e moderata via sonica al rumorismo: una melodia cristallina su un limpido tessuto chitarristico finisce lentamente col dissolversi in una ipnotica detonazione noise, nella conflagrazione di un vero rituale sciamanico.

Daydream Nation (Enigma, 1988)
di Francesco Giannici
5/5

Spetta a “Daydream nation” risistemare gli splendidi risultati di “Sister” e renderli digeribili al grande pubblico, iniziando quella svolta “rock” che caratterizzerà il periodo immediatamente successivo (cioé “Goo” e “Dirty”). Trainata dall’irresistibile apertura Teen age riot, tutta la prima parte del disco, giù giù fino a Hey Joni, snocciola tutte le possibili variazioni sul tema del noise impiantato sulla base della canzone rock, in un turbine di ritmiche furibonde e chitarristiche ragnatele. Ma nella seconda parte del disco il noise intransigente uscito dalla porta rientra dalla finestra più aggressivo che mai: l’orizzonte si fa nero con Providence, introduzione alla livida Rain king, nero nuvolone che riversa il suo rumore industriale sulla piccola e bellissima Candle, seguita da una febbrile e smaniosa Kissability. A porre il sigillo, una monumentale Trilogy: The wonder si scioglie dopo 6 minuti in Hyperstation; e la terza parte, Eliminator Jr., é il ritorno in grande stile del noise ipnotico duro e puro e di una Kim Gordon che abbaia e morde. Se il compromesso di questi 70 minuti sono la decadenza e l'”ammorbidimento” del noise, evviva questo noise ammorbidito.

Il periodo Geffen (1990-2002)

Goo (Geffen, 1990)
di Alessandro Mattiuzzo
4/5

Data Astrale: 1990. Primo album dei Sonic Youth pubblicato per una multinazionale, la DGC (Geffen). Ma non c’è nulla di commerciale in questi solchi… c’è una profonda attenzione a non perdere il contatto con quella che è stata la loro culla underground. Hanno libertà creativa i Sonic Youth, e hanno personalità. Canzoni amare e malate, prosecutrici dirette delle visioni urbane Velvettiane. Il lavoro si apre con Dirty Boots, dove una regolare pop-song viene straziata da esplosioni chitarristiche che faranno ampiamente scuola. Amarezza rumorosa in Tunic, ironia indie in Mary Christ. E’ la dissonanza a farla da padrona: Cool ThingsMoteDisappearerCinderella’s Big Score sono compendi dell’uso della chitarra rumorosa nel moderno rock suburbano. Per i bassisti ci sono My Friend Goo e Mildred Pierce. Probabilmente non il capolavoro dei Sonic Youth, ma un album che comunque raggiunge livelli di eccellenza e ha l’importanza storica di aver portato la band fuori dell’ormai stretto cortile underground.

Dirty (Geffen, 1992)
di Salvatore Patti
4/5

Giunto in periodo di piena affermazione del Seattlesound, ed affidato alla produzione di Butch Vig (Nevermind), Dirty è reinterpretazione del rock’n’roll, più appassionata che deformata, e delinea l’accettazione da parte del gruppo del proprio ruolo all’interno della prorompente scena alternativa USA. Le usuali pulsioni distortive sono incanalate in forme lineari, con un suond essenziale e pulito, a dispetto del titolo. Svolta commerciale o nuova esplorazione? In questa impossibile dicotomia si rotolano i SY, giocando più che mai sul fraintendimento che verrà inesorabilmente risolto da “Experimental” a favore della coerenza sonora.
È in particolare la torrida Sugar Kane ad avvalersi della nuova nitidezza di suoni, risaltando per chiarezza d’intenti tra brani di sorprendente continuità. 100% vibra su distorsioni irregolari che ne interrompono il battito e pongono abissi tra i SY e gli alfieri del grunge, che pure influenzano pesantemente “Dirty”: ascoltare per credere l’altro “anthem” del disco, Youth Against Fascism, adrenalinica, vibrante di energia grezza e che porta sul terreno politico l’attitudine alternativa di Moore e soci. Tre gioielli di ascoltabilità che tuttavia non offuscano le restanti canzoni: dal rock’n roll di Purr alla equilibrata Orange RollsAngel’s Spit, che resiste all’usuale trattamento ruggente di Kim Gordon. Ma per rendere giustizia a “Dirty” bisognerebbe citare tutti i quindici brani, persino lo spassoso scherzo hardcore di Nic Fit. Volendo a tutti i costi andare controcorrente si potrebbe dire di un disco che dà l’impressione di essere eccessivamente “posato” per provenire da una band portata al cambiamento ed alla ricerca. Di certo “Dirty” rimane il disco più accessibile dei SY, e probabilmente non il più adatto a descriverli ai posteri.

Experimental Jet Set, Trash and No Star (Geffen, 1994)
di Salvatore Patti
4/5

Per il seguito di “Dirty” i SY si affidano nuovamente alla produzione di Butch Vig e incidono un album delicato e controverso.
Visto dai più come un incompiuto approccio al rock mainstream, “Experimental” è in realtà un (ennesimo) tentativo di testare i limiti del proprio suono, passando dall’ acustica obliquità di Winner’s Blues alle spigolosità di Screaming Skull ed alla sensibilità trashy-pop di Tokyo Eye, ed è allo stesso tempo fautore di un’evoluzione “sottile” verso una completezza sonora che si manifesta in episodi più rilassati (BoneBull in the Heather). Un disco “dis-teso”, più ambizioso e meno immediato del predecessore, insolitamente frammentario (ben 14 brani, molti dei quali particolarmente brevi) e sul quale permane una sensazione di incompiutezza, ma meritevole di una serena rivalutazione, specialmente ora che è reperibile a medio prezzo. Non mancherà di piacere a chi ha apprezzato “Dirty”.

Washing Machine (Geffen, 1995)
di Luca Pagani
3/5

Come più volte ripetuto, “Washing Machine” é il classico disco “di mezzo” (ma quale album dei SY non lo é?) le cui composizioni denotano ancora una volta i sorprendenti cambiamenti stilistici (sempre nel rispetto di uno stile, come detto): Panty Lies poggia sull’onomatopeico cantato di Kim Gordon, un singhiozzare ritmico di parole; Junkie’s Promise sembra accennare agli stessi risultati (riff di chitarra e voce all’unisono), ma la resa é dieci volte più “cool” di quella precedente, e il merito va a Thurston Moore. C’é poi la dolcezza fuori luogo di Unwind e la “cattedrale” The Diamond Sea; azzerate le distorsioni i SY ripartono da leggeri “delay” e piccoli “wah-wah” che fanno tanto Greatful Dead.

A Thousand Leaves (Geffen, 1998)
di Salvatore Patti
3/5

Caratterizzato da una rilassata calma, il disco ruota attorno a due lunghe e sparse composizioni (Hits of Sunshinedi Moore e Karen Koltrane di Ranaldo, 20 minuti in tutto) che ne delimitano le ambizioni e ne costituiscono il fulcro emotivo. “A Thousand Leaves” completa il riavvicinamento dei SY ai suoni pre-Geffen, senza poter vantare l’impatto emotivo degli esordi: è la fotografia di una band affatto preoccupata di apparire e che si adagia sulla sicurezza nei propri mezzi, forte anche dei numerosi progetti in sviluppo collaterali al gruppo. Il nuovo atteggiamento “documentario” è evidenziato dalla produzione dimessa di Wharton Tiers, che lascia gli undici pezzi del disco nel loro bozzolo: diversi pezzi appaiono volutamente abbozzati, su tutti Hoarfrost e Snare, Girl. E tra questi frammenti grezzi spunta la perfezione formale di Sunday, delizioso quadretto pop di Thurston Moore. Ad emergere è anche la teatralità di Kim Gordon (si veda l’episodio di apertura, Contre le Sexisme): cristallizzata nell’interpretazione di una moderna Patti Smith, la Gordon rimane sola a perseguire gli eccessi vocali di un recente passato (Female Mechanic Now On Duty e The Ineffable Me). Nel complesso, un disco sottotono, dalle atmosfere dilatate e che non maschera qualche discontinuità lungo i suoi 74 minuti.

NYC Ghost And Flowers (Geffen, 2000)
di Luca Pagani
3,5/5

“Desideravamo semplicemente tornare alla struttura che avevano gli lp prima della nascita del cd”, questa la dichiarazione di intenti di Thurston Moore. Infatti sono soltanto 42 i minuti che compongono “nyc ghosts and flowers”. Il nuovo disco, fin dal titolo dedicato alla loro città, la Grande Mela, si avvale del genio di Jim O’Rourke, della sua produzione artistica, del suo basso (essendo Kim Gordon passata definitivamente alla chitarra), dei suoi campionamenti. Una musica calma e tranquilla, quasi tenue, ma inframmezzata da suoni elettrici o di matrice elettronica, come da rumori “concreti” , e piccoli oggetti che vanno in frantumi (complici la testa e la mano di O’Rourke?) . Al solito sorprende la dolce voce di Moore, già dall’iniziale Free City Rhymes, un incubo pop davvero inusuale; Renegade Princess (la canzone punk del 2000?) é cantata all’unisono con Kim Gordon, si avvale anche della chitarra ambientale (spacestatic guitar sta scritto nel booklet) del chitarrista portoghese Rafael Toral. L’accelerazione in progress di Nevermind (what was it anyway) è una fiamma che si spegne lentamente. Il mood del disco rimane sommesso, delicato, l’imperativo é quello di lasciare i “groove” incompiuti (vedi “A thousand leaves”), e, perché no, poetico nel suo insieme, “stream of consciousness” lievemente angosciante come in Side2side. Melodie anche cantabili e memorizzabili, come nella bella “filastrocca” Streamxsonic Subway, che non so perché, mi ricorda quello gnomo psichedelico che era (qualcuno dice ancora?) Syd Barrett, nel suo accennare e poi sconfessare la melodia della narrazione. Il cammino in un sogno, direi, e proprio per questo si può scorgere in “questo” Sonic Youth, più che in altri precedenti lavori, un’attitudine psichedelica, nel senso moderno del termine, nella dimensione onirica evocata dalla title-track, il semi-recitato di Lee Ranaldo affogato sul finale dai feedbacks delle chitarre e vicina ai suoi lavori solisti, e nei 70 secondi da brivido con la magnifica tromba “a scomparsa” di Kim Gordon nel finale Lightnin’.

Murray Street (Geffen, 2002)

di Pasquale Boffoli

La collaborazione dei Sonic Youth con Jim O’Rourke é iniziata dal loro penultimo lavoro, N.Y.C.Ghosts and Flowers: Jim li produce, ci suona insieme (é con loro in Italia in tour nei primi giorni di luglio) ed in questo nuovo Murray Street la cosa si é estesa anche a livello compositivo, anche se prima di tutto il geniale ed eclettico O’Rourke ha registrato e mixato Murray Street!
Credo che quel particolare ed avvolgente ‘infuso’ di suoni ed atmosfere morbidamente delicate/ cristalline ed aggressivamente noisy presente in buona parte dell’album sia proprio opera sua: Murray Street infatti ripropone tutti i tratti piu’ salienti del pianeta Sonic Youth, lunghe fughe strumentali, intrecci ipnotici di chitarre, ballate agrodolci dal sapido sapore urbano ma come calati in una calda ed umida placenta dalla cui sottile parete emanano raggi carismatici.

Basta osservare cosa succede in Karen Revisited, apice creativo posto al centro dell’album nonché il brano più enigmatico e complesso della raccolta.
Ad una prima parte ‘regolare’ caratterizzata da una melodia ed un cantato di nitida bellezza fa seguito bruscamente e senza apparente soluzione di continuità una lunga porzione strumentale decisamente sperimentale ed inquietante, una sorta di psichedelia planante dal vago sapore spaziale che trasfigura il concetto di rumore elaborato da Thurston Moore e c. nel corso degli anni e di album fondamentali come Daydream Nation, Evol, Sister, in nuove mature fascinazioni estetiche, ‘cibo’ per la mente ed i sensi dei tanti umanoidi che popolano New York City e le altre megalopoli occidentali, squassate da nuove paranoie, minacce di attentati terroristici prima di tutte!
Gli intrecci conturbanti delle chitarre di Thurston Moore, Lee Ranaldo e Jim O’Rourke in Rain On Tin, ora stupefatti, ora ruvidi, ripropongono l’antica/nuova ossessione dei Sonic Youth per il minimalismo sonico esacerbato, e se é vero che tra le passioni giovanili di Lee Ranaldo, questo intellettuale newyorkese chitarrista/compositore, oltre Stooges e V.Underground ci sono anche leggende west-coast come Grateful Dead e Jefferson Airplane….. a ben guardare é proprio a certe lunghe, tortuose, immaginifiche improvvisazioni acide di quei signori che un brano come Rain On Tin mi rimanda in alcune soluzioni…!
Disconnection Notice e The Empty Page sono ballate elettriche che suonano già classiche a secondo ascolto, attraversate da un meraviglioso mood malinconico: ti catturano i sensi con quelle melodie sghembe che solo i Sonic Youth sanno comporre, squassate a giorno da lampi noise chitarristici.
Più concitata e caotica Radical Adults Lick Godhead Style, violentata nel finale dai free horns di Jim Sauter e Don Dietrich.
Gli ultimi due episodi di Murray Street vedono Kim Gordon lead vocal: Plastic Sun con il suo svolgimento ansioso e singhiozzante sembra un outtake di Experimental Jet Set, Trash & No Star; dulcis in fundo la lunga, estatica/orientaleggiante Sympathy for The Strawberry, un mantra elettrico dal fascino penetrante .
Si conclude così Murray Street, ennesimo, imperdibile capolavoro modernista di uno tra i gruppi fondamentali di art-experimental rock della nostra epoca!

 

Manfredi

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