Solo il mimo canta al limitare del bosco, la distopia di Walter Tevis

mimo

Si capisce di avere davanti agli occhi un grande romanzo non appena si legge l’incipit. Spofforth, dal corpo artificiale, dalla mente che una volta apparteneva a un malinconico ingegnere, androide fatto dall’uomo, vuole morire e non può, fermo sull’orlo di un grattacielo – l’uomo l’ha creato e solo lui potrà ucciderlo – e neppure può piangere, senza condotti lacrimali com’è, e non riesce a gridare, e così è costretto ad andare avanti, a spronare il suo corpo pesante e artificiale ancora una volta in avanti. Programmato per restare vivo contro la propria volontà. Un corpo possente e mai stanco dalla pelle nera, i capelli ricci e una mente distrutta. Il giocattolo più bello dell’umanità.
“Avrebbe continuato a vivere e l’avrebbe sopportato.”
Il libro è il distopico fantascientifico Mockingbird di Walter Tevis, più conosciuto forse per L’uomo che cadde sulla Terra – che pure si lega in qualche modo a questo, per tematiche e atmosfere, e potrebbe quasi esserne un ideale seguito. I due libri sembrano universi alternativi che hanno segreti in comune, come se dipendessero l’uno dall’altro. Come se Mokingbird fosse un altro mondo scaturito dal nostro o il futuro di quello. La solitudine, l’alcolismo, la malinconia, l’amore. Compare persino lo stesso quadro di Bruegel, La caduta di Icaro. Un quadro in cui Icaro appare appena sullo sfondo, senza che nessuno se ne accorga. Il contadino continua ad arare. Un uomo a scrutare il cielo. La tragedia passa inosservata. Il grido è inascoltato. Ognuno è indifferente alla sofferenza.
Icaro è già precipitato.
“Perché non parliamo tra noi? Perché non stiamo vicini, per proteggerci dal vento freddo che soffia nelle strade deserte di questa città?”
Mockingbird: uccellino, beffeggiatore o mimo. Per questo il titolo italiano è, riprendendo uno dei tre significati, Solo il mimo canta al limitare del bosco (disponibile nell’edizione Minimum Fax). Parole che emozionano senza saperne ancora il motivo. Una frase che appare in un film muto, detta da un vecchio a una ragazzina. È Bentley a leggerla, l’unico essere umano che sa leggere. Ha imparato da sé, lentamente. Gli sembrava un gesto importante.
Guarda film muti e legge, di continuo. E guardando quei film, giorno dopo giorno, scopre sentimenti sconosciuti, nuovi.
“Talvolta, mentre guardo queste scene, mi sorprendo a piangere.”
Vive in una società la cui massima è: La solitudine è meglio. Non esistono famiglie, i legami sono pericolosi. Sembra di vivere nella foresta clandestina di The Lobster, il film di Lanthimos che riflette in modo bestiale sulle relazioni.

Una volta tanto non si tratta di distopia che riduce il singolo a massa, ma viceversa. Ed è altrettanto brutale.
Una società in cui se la gente si dà fuoco nessuno interviene, nessuno ne è minimamente turbato. In cui le persone muoiono e i bambini non nascono. Una società in cui i cittadini prendono droghe che li intontiscono e li rendono calmi, innocui, e praticamente per loro scelta. Per non essere lucidi e non finire schiacciati dalla realtà.
Di più: non hanno neppure la concezione del tempo, del fatto che sia esistito un passato in cui le cose non erano così. Non sanno, ad esempio, che si possa memorizzare la propria vita. Non sanno che cosa significhi serbare un ricordo.
Intanto Spofforth tenta di ricordare chi era, di chi erano quei qualcosa che crede di conoscere, quei sogni che fa ogni notte. Tenta di ricordare.
E poi c’è lei. La donna che vive al Rettilario. Intelligente, in modo incredibile. Che non prende droghe e tenta di ricordare. Che è stufa di regole e repressione. Che vuole vedere, capire.
Lei e Bentley si conosceranno e confideranno. Lui con iniziale timore, lei con speranza. Paul Bentley e Mary Lou.
La scoperta dei libri, come in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Di quel mondo delicato fatto di carta e parole. I libri a centinaia, a migliaia. I libri che contengono informazioni, immagini. I libri che possono salvare. L’amore che può salvare. Una sensazione di gioia dolorosa nel petto.
Le loro voci accompagnano il lettore in un mondo disumano che ha paura delle emozioni.
Ma che bello scoprire di poter passare il braccio intorno alle gracili spalle di un altro uomo. Di poter fare sogni confusi. Di poter dire “nostro” oltre che “mio”. Di poter scrivere un nome. Di poter scrivere. Che bello imparare a preoccuparsi per gli altri. Imparare parole nuove.
” – Che cosa intendi per amore?
Non mi ha risposto per molto tempo. Poi ha detto:
– Palpiti nello stomaco. E intorno al cuore. Il desiderio che tu sia felice. Un’ossessione per te, per il modo in cui chini il mento e qualche volta sgrani gli occhi. Il modo in cui tieni la tazza del caffè. Sentirti russare la notte, mentre sto qui seduto.”

Capire che se non si è da soli la tristezza diventa all’improvviso più sopportabile. Che è bella persino la delusione. Lo scorrere del tempo e gli eventi che mutano.
Comprendere finalmente la delicatezza di una parola come “amico”.
Leggere e leggersi.
Saper leggere, qualunque cosa possa accadere.

“Mio Dio, come può essere bello il mondo.”

Inevitabile pensare a una poesia di Nazim Hikmet, poeta turco che nonostante la brutalità, la sofferenza e la prigionia non ha mai smesso di credere nella vita e nell’altruismo. Non ha mai smesso di credere nell’uomo.
Bentley avrebbe probabilmente amato le sue poesie. E avrebbe dedicato a un figlio, come fece Hikmet, queste parole.

“Non vivere su questa terra
come un inquilino
oppure in villeggiatura
nella natura
vivi in questo mondo
come se fosse la casa di tuo padre
credi al grano alla mare alla terra
ma soprattutto all’uomo.
Ama la nuvola la macchina il libro
ma innanzitutto ama l’uomo.
Senti la tristezza
del ramo che si secca
del pianeta che si spegne
dell’animale ferito che rantola
ma innanzitutto la tristezza dell’uomo.
Che tutti i beni terrestri
ti diano gioia
che l’ombra e la luce
ti diano gioia
che le quattro stagioni
ti diano gioia
ma che soprattutto l’uomo
ti dia gioia.”

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