Sessant’anni di Giant Steps

 

Gli anniversari, si sa, sono poco più che scuse per tornare a parlare di qualcosa o qualcuno che ci è particolarmente caro. Quando poi si parla di cifre tonde, come il cinquantennale della nascita di Tizio o il bicentenario della pubblicazione di “Caio plays Sempronio”, l’occasione è troppo ghiotta per non sperticarsi in celebrazioni a suon di nuovi studi e riproposizioni lussuose degli antichi oggetti d’ascolto o di lettura. Consuetudini che rasentano il vizio, si dirà; e però, senza queste ricorrenze non avremmo forse avuto tanti splendidi cofanetti musicali, o edizioni commentate di testi assurti al rango di classici. Ben vengano, dunque, i compleanni, come quello del neo-sessantenne che andiamo a riascoltare, sul quale sono stati versati fiumi d’inchiostro sia da musicologi che da giovani musicisti impegnati a trascriverne gli assoli, e che nonostante tutto continua a sorprendere per intensità, intelligenza e calore: sto parlando di Giant Steps di John Coltrane.

Su Coltrane è stato scritto e detto di tutto; i musicisti di mezzo mondo continuano a considerarlo un punto di riferimento, e c’è chi ha addirittura fondato una chiesa ispirandosi al messaggio religioso di un suo disco del 1965, A Love Supreme, sull’importanza del quale si è già espresso su queste pagine virtuali Francesco Bove. Mi limito a ricordare, con Stuart Nicholson, che «è come se Charlie Parker fosse riapparso per tre volte di seguito» (Giant Steps. Il disco del futuro, «Jazzit», n. 58, maggio-giugno 2010). Prima, ha imposto il suo fraseggio velocissimo e il suo lavoro sugli armonici nel dettato dell’hard bop, guadagnandosi la stima dell’intera comunità jazzistica e rispedendo colleghi anche più illustri di lui a esercitarsi (leggasi: Sonny Rollins); ha portato alle estreme conseguenze le idee modali di Davis e George Russell, traendone la base sonora per A Love Supreme; infine, ha segnato il free jazz con l’incisione dei quaranta infuocati minuti di Ascension e con le sue ultime opere, talmente dense da aver rappresentato per molto tempo degli enigmi per i suoi stessi estimatori, in realtà esiti inevitabili di una ricerca avviata anni prima e condotta fino agli ultimi giorni di vita del musicista, scomparso nel 1967 per un tumore al fegato. Chi fosse interessato a saperne di più può consultare la ricchissima biografia-studio di Lewis Porter Blue Trane. La vita e la musica di John Coltrane (minimum fax, 2006); noialtri siamo ormai pronti a calarci nei solchi del vinile Atlantic.

Facciamo un passo indietro e torniamo al 1959, anno straordinario per la musica jazz visto che in pochi mesi escono classici come Mingus Ah Um di Charles Mingus, Moanin’ dei Jazz Messengers di Art Blakey, Blowin’ the Blues Away di Horace Silver, The Shape of Jazz to Come di Ornette Coleman e Kind of Blue di Miles Davis, nel quale il sax di Coltrane ha un ruolo centrale. A quest’altezza temporale, il Nostro è già molto più che una bella promessa: maturato con l’apprendistato presso il Gran Sacerdote del bop, Thelonious Monk, e autore di alcuni album di grande importanza come Soultrane e Blue Train (entrambi del 1958 ma usciti rispettivamente per Prestige e Blue Note), è la colonna portante delle prime grandi formazioni di Davis, ossia del primo quintetto ‘classico’ e del sestetto col quale si consuma la svolta modale. Questo insieme di esperienze lo invoglia a osare di più, mettendo insieme una propria formazione. Il grande quartetto coltraniano si sarebbe formato solo dopo qualche anno, con l’arrivo di McCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria; ma nel frattempo Trane ha la possibilità di sperimentare soluzioni armoniche che indirizzo una ricerca musicale da svolgere nei tempi a venire.

È in questo clima che prende forma Giant Steps, uscito nei primi mesi del 1960 ma frutto di tre sedute di registrazione datate rispettivamente 4 maggio, 5 maggio (con Tommy Flanagan al piano, Paul Chambers al contrabbasso e Art Taylor alla batteria) e 2 dicembre 1959 (con Chambers, Wynton Kelly al piano e Jimmy Cobb alla batteria; insomma, una delle sezioni ritmiche di Kind of Blue). Andrebbe citata anche una prima session del 26 marzo dello stesso anno, con Cedar Walton al pianoforte, Lex Humphries alla batteria e l’onnipresente Chambers al basso; nulla sarebbe confluito nel disco, ma fu la prima occasione di approccio da parte di una formazione coltraniana alla struttura del brano eponimo, con ogni probabilità uno dei pezzi più famosi dell’intera storia del jazz e tutt’oggi banco di prova per orde di aspiranti sassofonisti. In una bella analisi degli Steps, Antonio Iammarino ha notato che i «passi da gigante» a cui inneggia il titolo non sono un’autocelebrazione dell’autore – del resto uomo fin troppo critico con sé stesso – bensì quelli compiuti dal centro tonale della composizione, che gravita attorno alle scale di Si maggiore, Mi bemolle maggiore e Sol maggiore (Aldo Gianolio, Antonio Iammarino, Giant Steps di John Coltrane: i passi di un gigante, «Musica Jazz», n. speciale 706, supplemento al n. 8-9, agosto-settembre 2009). Tali modulazioni, che si dicono “di terza maggiore” perché le note in questione distano tra loro una terza maggiore (equivalente a quattro semitoni), complicano non poco l’armonia del brano, di fatto costruita sui salti di cui prima sfruttando ben ventisei accordi, un’enormità se si pensa che si tratta soltanto di sedici battute.

Si è spesso parlato di Giant Steps come di un mero esercizio tecnico, sia pure raffinatissimo. Tale considerazione dimentica però vari aspetti che, riuniti, continuano a farne un piccolo miracolo musicale. Innanzitutto, per quanto possa sembrare scontato dirlo, la perfetta logica dell’assolo di Coltrane, che su un giro armonico così difficile costruisce una melodia a un tempo rigorosa e creativa. Il tutto, aggiungo, conservando il suono secco ma nitido che lo contraddistingue. Chiunque suoni il sax tenore sa bene che non è facile mantenere un timbro forte mentre si suona a velocità come quelle di cui stiamo parlando, cosa che invece riusciva naturale a Trane – per la gioia di Miles Davis, che nelle folli esecuzioni a tutto volume dell’amico e collaboratore trovava il perfetto contraltare al suo sound parsimonioso e rotondo. E ancora, andrebbero valorizzate le prove degli altri musicisti, prima fra tutte quella di Paul Chambers, il cui contrabbasso supera molto bene la sfida armonica posta da Coltrane; finanche Tommy Flanagan, per sua stessa ammissione in difficoltà quando si trovò a registrare il pezzo, porta a compimento un buon lavoro, forse al di sotto della media delle sue registrazioni, ma molto meno catastrofico di come tanta pubblicistica lo ha raccontato.

Con Cousin Mary, si torna al blues. Anche questo pezzo è composto da Coltrane, come del resto tutti quelli presenti nell’opera, a riprova di quanto il momento compositivo, per molto tempo sottovalutato, non fosse per nulla secondario nella sua visione musicale. Dedicato a una sua cugina, è ancora una volta un brano dalla struttura armonica insolita, tanto più per una forma canonica come il blues. È tuttavia un altro aspetto che mi ha sempre colpito molto dell’assolo di sax: la sua perfetta cantabilità. Non lo si direbbe, ma il caro John è, tra le altre cose, un solista cantabilissimo, nonostante la complessità delle sue architetture melodiche. Basti pensare al suo contributo sulla versione di Oleo del quintetto davisiano, sul quale si è soffermato Fabio Tullio, sottolineandone proprio l’equilibrio tra «lucidità espositiva e geometria delle frasi», o ancora alla più tarda Resolution, che canzone è divenuta davvero grazie all’estro di Kurt Elling.

Si prosegue con Countdown e Spiral. Il primo brano, suonato alla velocità-limite di 300 bpm, comincia con un’introduzione di batteria sulla quale si incastona la voce nervosa del tenore, per stemperarsi solo alla fine nel tema. Nemmeno tre minuti di musica, nei quali si suonano più note che in tanti dischi; e non una di queste è superflua – casomai trattasi di un flusso ipnotico, come dimostra anche la storia di Jan Garbarek, il grande sassofonista norvegese, che decise di cominciare a suonare dopo aver ascoltato per caso Countdown alla radio. Con Spiral, invece, siamo di fronte a un ennesimo esperimento: la “spirale” è infatti generata dal passaggio da una sezione modale a una tonale, col corollario di differenze armoniche su cui improvvisare.

Molto attaccato alla sua famiglia, il Nostro dedica alla figlia e alla moglie due pezzi assai diversi. Syeeda’s Song Flute è ispirato a una canzoncina che la piccola Syeeda suonava al flauto dolce. Un tema infantile, che non ci stupiremmo di sentire eseguito da quello spirito patafisico che fu Thelonious Monk, e che dà modo a Chambers e Flanagan di ritagliarsi due splendide improvvisazioni. Se Syeeda’s Song Flute è il momento più giocoso dell’album, Naima ne rappresenta l’anima lirica: una bellissima composizione dedicata all’allora signora Coltrane, che sarebbe rimasta in repertorio anche dopo la fine del loro matrimonio. Questa volta, Trane si limita a esporre più volte il tema, dimostrando così la sua padronanza delle note lunghe e una imprevedibile passione per le ballad, che qualche anno dopo avrebbe portato a opere espressamente dedicate a questa forma musicale, come quella con il cantante Johnny Hartman.

Il gran finale è ancora una dedica, stavolta a uno dei musicisti più stimati dal tenorista: Mr. P.C., ossia il signor Paul Chambers, un gigante – in tutti i sensi: era altissimo – del contrabbasso jazz degli anni Cinquanta. Abbiamo già visto come Chambers sia la sola presenza fissa nelle numerose sessioni disseminate lungo tutto il ’59, ma il suo walking bass scandiva già le battute dell’esordio di Coltrane per la Prestige, datato 1957 (e intitolato, con notevole sforzo di fantasia, Coltrane). Morì a soli 33 anni, dopo aver consumato la propria vita tra droghe e alcol; fece in tempo a comparire su una buona metà dei titoli veramente importanti di questa musica. Mi sono sempre chiesto come si sentisse Chambers a suonare su un pezzo a lui intitolato; immagino ne fosse ben felice, visto che nel take scelto per il disco unisce una linea di basso capace di ancorare saldamente l’intera sezione ritmica a esigenze espressive da grandissimo solista. Il blues sul quale si scatena il quartetto – a proposito, è anche l’unico pezzo in cui sia presente un dialogo tra Trane e il batterista Art Taylor – è oggi uno standard ampiamente frequentato durante le jam session, ed è forse il pezzo che meglio rende l’idea di quanto sia ancora attiva e vitale la lezione musicale di Giant Steps.

Ora la puntina si alza, il vinile si ferma; sono passati sessant’anni, ma la poesia di Naima, la cascata sonora di Countdown e la grinta di Mr. P.C. resistono al tempo e ai cambiamenti. Un’opera da scoprire a ogni ascolto, con la consapevolezza della sua importanza per l’evoluzione della musica successiva ma anche con la passione di chi vuole trascorrere 40 minuti in compagnia del grande jazz.

 

Articolo di Giuseppe Andrea Liberti

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