Sarah Curati: il teatro è come una partita a tennis

 

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Sarah Curati

 

Sarah Curati è collaboratrice di Rivista Paper Street. È laureata in Scienze linguistiche, letterarie e della traduzione presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” con una tesi in traduzione teatrale su un testo di Caryl Churchill, Love and Information. Dopo aver partecipato al laboratorio di visione e scrittura critica condotto dalla redazione di Teatro e Critica all’interno della stagione congiunta Dominio Pubblico (2013/2014) dei teatri Argot e Orologio, ha collaborato presso i festival Santarcangelo dei Teatri e Short Theatre nel settore ufficio stampa e comunicazione. Nell’agosto 2015 ha partecipato al workshop “Social Media Strategies for Drama Review” tenuto da Andrea Porcheddu, Anna Pérez Pagès e Roberta Ferraresi presso la Biennale Teatro di Venezia.

 

Se volessimo cominciare un’analisi della situazione di crisi culturale del teatro italiano, da quali segnali dovremmo partire? Secondo te/voi, la crisi del teatro potrebbe essere la diretta conseguenza di una crisi generazionale, d’identità e di opportunità? Quali sono i tempi e modi del suo sviluppo?

Io non credo che il teatro sia in crisi, o meglio, non più di quanto lo sia stato in precedenza. Ogni epoca ha la sua crisi e la nostra non fa certo la differenza, ma il teatro è sempre sopravvissuto e sopravvivrà anche adesso. Certamente c’è una crisi globale a livello economico che si ripercuote nell’ambito dello spettacolo (i tagli del Fus), ma non è detto sia questa la causa scatenante, o perlomeno, non l’unica. Penso invece che ci troviamo in una fase di transizione in cui anche il teatro deve fare i conti con una società in profondo mutamento e che, per forza di cose, deve rivedere e ribadire il proprio statuto all’interno di essa. Non parlo da sociologa e questo è solo un mio piccolo punto di vista, però penso che con l’avanzare del progresso, soprattutto tecnologico, stia cambiando lentamente anche la nostra percezione della realtà e che questo si rifletta in qualche modo nel teatro. Il progresso, infatti, oltre ai suoi meriti, porta con sé anche gli effetti collaterali: siamo una società molto distratta, multitasking, sì, ma con una soglia di attenzione sempre più bassa, con l’illusione di essere connessi ovunque quando ci sfugge il momento presente, bombardati da una tale quantità di stimoli e informazione mediatica per cui è difficile anche solo discernere il meritevole dalla spazzatura, il reale dal virtuale, i desideri effettivi da quelli indotti. In questo scenario può essere difficile trovare la spinta necessaria per andare a teatro, se per teatro s’intende qualcosa che vada oltre il puro intrattenimento. Può sembrare una banalità ma dovremmo pensarci: che posto ha il teatro? Perché io (spettatore ipotetico) dovrei sceglierlo fra le miriadi di possibilità di scelta e distrazione che la società mi offre? Si dà per scontato che le persone vadano a teatro perché dall’altra parte c’è qualcuno che ha qualcosa da dire, ma non è così scontato e non basta avere qualcosa da dire. Così, penso che questa sia una domanda che dovrebbe porsi anche la compagnia (sempre ipotetica): perché le persone vorrebbero vedere proprio il mio spettacolo? E soprattutto: per chi lo faccio? Per me? Per il pubblico? Per le recensioni? Per il produttore?
Penso che debba esserci una motivazione molto forte da entrambe le parti – chi il teatro lo fa e chi ci va — per scegliere d’incontrarsi, a maggior ragione in questo periodo in cui andare a teatro è diventato un atto di resistenza contro la tirannia dell’iperconnessione: significa prendersi del tempo, disconnettersi dal proprio egocentrismo per connettersi ad una realtà altra, rinunciare al dono dell’ubiquità e fare una cosa per volta; insomma, essere presenti a se stessi nel qui e ora del teatro per lasciar fuori tutto il resto. E non è così facile, oggi.
Per concludere, penso che in questo clima di grande frammentazione sociale e culturale si sia perso un po’ di vista quel trait d’union più immediato che lega il teatro, anzi i teatri, alle persone (ogni compagnia, ogni teatro ha il suo pubblico e non è mai casuale: infatti per me il concetto di pubblico è un’astrazione: non esiste, esistono tanti tipi di pubblico quanti sono i diversi tipi di teatro). Bisognerebbe recuperare all’origine quei motivi per cui ci si sceglie a vicenda, non darli per scontati. Perché se poi quei motivi riescono a superare il narcisismo e l’autoreferenzialità, se da entrambe le parti c’è un’urgenza chiara, onesta e condivisa che spinge ad incontrarsi, allora i risultati si vedono. Il caso Rezza-Mastrella è solo un esempio.

Si può affermare che la crisi del teatro possa dipendere anche da una mancanza di idee teatrali forti?

No, non credo sia una questione di mancanza d’idee. Le idee ci sono, buone e meno buone, anzi, forse sono l’unica cosa che non manca. Frequentando i teatri, soprattutto gli spazi off, nella maggior parte dei casi vedo fermento, passione e intelligenza. Il problema non sono le idee ma trovare quelle condizioni necessarie – spazi adeguati, tempi e modalità di sviluppo – in cui metterle in atto.

Qual è la funzione sociale del teatro oggi? Quali necessità soddisfa?

Mi ha colpito molto una notizia di qualche mese fa: la compagnia del Globe Theatre di Londra ha portato l’Amleto fra i migranti di Calais, circa quattromila persone stipate in una baraccopoli (la “Giungla di Calais”) che cercavano ogni giorno di scappare in Inghilterra.
Ecco, per me è tutto lì. In qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi condizione di indigenza ci sarà sempre bisogno del teatro, non inteso come edificio ma come modalità di espressione insita nel nostro dna. Credo infatti che la sua funzione sia quella originaria che è sempre uguale da secoli: il teatro è un rito ancestrale che connette l’uomo con se stesso e con il mondo che lo circonda, a livello emotivo e intellettuale; uno spazio protetto dove indagare pericolosamente quelle ossessioni che ci portiamo dietro fin dalla notte dei tempi, che sia la vita, la morte, l’amore, la violenza, l’irrazionale e così via. Per questo parlare di funzione sociale del teatro mi sembra un po’ riduttivo, perché a quel punto diventerebbe una terapia o un dovere (Heiner Müller in Guerra senza battaglia parla addirittura di funzione asociale o antisociale del teatro, senza togliere nulla alla sua moralità); come anche non penso debba soddisfare nessuna particolare necessità, perché questa si compie nella sua esistenza stessa come attività spirituale dell’uomo. Senza il teatro — ma allargando il raggio d’azione, senza tutte le manifestazioni artistiche e culturali di cui l’uomo è capace – credo che la società non avrebbe uno specchio in cui riflettersi: sarebbe come camminare a tentoni nel buio della quotidianità senza sapere chi siamo e dove stiamo andando. La necessità del teatro sta invece nell’illuminare la nostra condizione di esseri umani e mortali per ragionare sul perché siamo qui a condividere insieme un’epoca, uno spazio, un percorso. Per questo è necessario, per me.

Si può credere a un rinnovamento del teatro o siamo in attesa di un modello culturale che possa scuotere le coscienze?

Non dovremmo aspettarci niente da nessuno, né tantomeno un modello culturale che possa scuotere le nostre coscienze, anche perché i segnali dall’alto sono in verità preoccupanti; gli unici che possono scuotere le coscienze siamo noi stessi. Il rinnovamento del teatro dovrebbe partire dal basso e da tutti, dal lavoro quotidiano, cercando di superare l’arte di arrangiarsi individuale così tipica di noi italiani per fare più causa comune; dallo smettere di lamentarsi e passare all’azione.

Lo Stato sostiene il teatro in Italia? Se sì, ne beneficiano tutti?

Sì, lo Stato sostiene il teatro ma lo fa poco e male, e non ne beneficiano tutti. Il teatro di ricerca è di fatto lasciato senza finanziamenti.

Le due misure più estreme ed urgenti da mettere in atto, secondo te.

Ridistribuire meglio i finanziamenti del Fus includendo le compagnie indipendenti più piccole, ed evitare gli sprechi. Dare maggior dignità, rispetto e considerazione a tutti i lavoratori dello spettacolo – a cominciare dagli artisti — e alla vita culturale di questo Paese, perché sembra che lo Stato non abbia nessun interesse a valorizzarla. Ogni teatro, ogni spazio culturale che chiude (penso alla chiusura anticipata della stagione del Teatro i a Milano ma anche a quella allarmante del circolo Dalverme a Roma, pur se si tratta principalmente di una sala concerti — belli) è un doloroso fallimento per tutta la società, un ennesimo colpo inferto a un corpo già in agonia. Si dovrebbe invece riportarlo in vita con una politica culturale degna di questo nome.

Ha ancora senso mettere in scena i classici? O andrebbero “tolti di scena”? Quanto influisce la scelta politica di un direttore artistico?

Assolutamente sì. Il problema non è il classico in sé ma la concezione da reperto museale che se ne ha. Invece penso che nessuno sia così intoccabile e se solo si ha la volontà di esplorare, e non riprodurre sulla scena, quel nucleo originario del classico per sporcarlo un po’ con ciò che è interessante per noi contemporanei, allora si possono creare cortocircuiti sorprendenti. Il direttore artistico detta la sua linea, com’è giusto che sia, purtroppo è vincolato da scelte che impongono il più delle volte spettacoli basati su facili consensi e non sul rischio. C’è una logica aziendale di questa riforma che non tiene conto di dinamiche molto delicate e sfuggenti pertinenti al mondo dello spettacolo ma sconosciute al mondo del mercato. Il teatro è una macchina che deve generare soldi ma non la si può trattare come un’azienda qualsiasi altrimenti la si svilisce, la si umilia.

Si può parlare di “dittatura teatrale” nel mondo delle arti in scena? Se sì, perché?

Parlare di dittatura teatrale mi sembra un po’ troppo catastrofico. Indubbiamente il potere più “forte” al momento è dato in mano ai direttori artistici, che hanno il delicato compito di scegliere le programmazioni dei teatri. Nella maggior parte dei casi, poi, c’è un sistema di circuitazione degli spettacoli basato sullo “scambio” ma più che dittatura, mi sembra una forma di finta democrazia, che non di rado si tramuta in finta meritocrazia.

È possibile un “teatro della crisi” in cui artisti, spettatori e critica trovino un punto in comune?

Penso che le crisi di queste tre categorie siano molto diverse fra loro, come anche le loro esigenze, quindi un punto in comune forse no ma un punto di confronto sì, è auspicabile.

Quant’è importante lo spettatore a teatro? Quanto è necessario investire nella formazione di un pubblico consapevole?

È certamente necessario. Il teatro è come una partita a tennis: ci deve essere dall’altra parte qualcuno che raccoglie la palla (il pubblico) e che la restituisce (la critica), altrimenti poi la palla va fuori campo ed è un peccato. Giocare da soli non ha senso. Per quanto riguarda la formazione, ben vengano i laboratori, gli incontri pre o post spettacolo: possono essere utili per approfondire un determinato autore, un testo o un argomento, o rappresentare ulteriori momenti di condivisione fra il pubblico e le compagnie. La parola formazione, però, mi sta un po’stretta: perché il pubblico dovrebbe essere “formato”? È questo il punto. Forse mi sbaglio, ma non penso dovrebbe esserci bisogno di una formazione specifica per andare a teatro, anche perché può rivelarsi un’arma a doppio taglio e rischia paradossalmente di allontanare. Ricordo quand’ero a liceo di aver assistito alle classiche matinée organizzate per le scuole ed erano decisamente noiose. Poi per fortuna ho visto altro, ma per chi rimane a quell’esperienza lì è difficile cancellare quell’imprinting.

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