Queen: i lavori solisti

In gruppo sono grandi, ma non si può dire lo stesso dei loro lavori solisti: mentre di Deacon si ricorda solo un imbarazzante remix in compagnia degli Immortals, May, Mercury e Taylor hanno tutti intrapreso carriere soliste più o meno importanti a partire dagli anni ’80.

Anche per ragioni di popolarità e immagine, il defunto cantante dei Queen ha raggiunto i risultati migliori in termini di vendita: ai suoi due dischi (“Mr. Bad Guy”, ormai introvabile ma recentemente riedito nell’ambito di una collection, e “Barcelona”, in coppia con la soprano Montserràt Caballe) si affiancano numerose collaborazioni e parecchi brani singoli poi raccolti nel buon Freddie Mercury Album. Era il vocalist a tentare più di tutti strade nuove: non solo la lirica pop di Barcelona, ma anche il pop easy-listening del debutto è infarcito di piccoli lampi di genio, oltre che delle solite melodie indimenticabili (There Must Be More To Life Than This, Love Me Like There’s No Tomorrow, Made In Heaven). Non siamo a livello delle prove corali, ma lo stile si nota e in entrambi i casi il risultato va ben sopra la media.

Se una voce decisamente inarrivabile come quella di Mercury potè fare la differenza anche in brani meno interessanti (gli infausti esperimenti disco di Moroder quali Love Kills, cui Freddie prestò la voce), gli altri due membri della band dovettero fare i conti con le proprie qualità, non sempre eccellenti: entrambi fanno affidamento ancora oggi sullo zoccolo duro dei fans inguaribili, ma la carenza delle loro produzioni non è un mistero per nessuno.

Taylor, da sempre il più radicale del gruppo in termini di sonorità, ha macinato vari album sin dalla metà degli anni ’80, in solo o con la sua band, i Cross: niente di seriamente interessante, qualche buon brano (si pensi ad Heaven for Everyone, originariamente edita proprio dai Cross) e una propensione al rock più diretto. L’album migliore della sua discografia resta secondo noi “Happiness?”, in cui annoveriamo alcuni buoni spunti, ma è vivamente consigliato un ascolto preventivo: l’ex batterista ha sempre rappresentato una parte marginale del Queen-sound, nonostante la sua ampia e devota partecipazione alla vita del gruppo, e infatti la sua carriera devia spesso verso territori diversi e più prevedibili.

Per quanto riguarda May, c’è qualche buon disco da recuperare: insieme a Van Halen, Mandel ed altri chitarristi diede alle stampe nella prima metà degli anni ’80 un album misconosciuto chiamato “Blues Breaker”, praticamente una lunga jam session che poteva soddisfare sia gli onanisti dello strumento che i cultori del blues più sanguigno; più avanti nacque poi lo “Star Fleet Project”, ovvero altri brani più compositi ed orientati verso un anacronistico space-rock alla “Flash Gordon”: se siete interessati (ma vi garantiamo che non c’è nulla di realmente importante lì dentro) potete trovare entrambe le releases in un cd giapponese chiamato “Resurrection” ed uscito anche sul mercato inglese a nome “Brian May with Cozy Powell”. Comunque, la carriera del chitarrista ha avuto un bel sobbalzo dopo la fine dei Queen: i fans, orfani di Mercury, scelsero proprio May come sostituto ideale, e lui li ripagò dopo qualche anno con “Back To The Light”, album ben fatto tra pop e rock con qualche brano decisamente interessante (Love Token, Last Horizon). Purtroppo, dopo un live abbastanza fiacco in cui venivano ripresi dalla band di May anche i gloriosi brani dei Queen (troppo facile, dirà qualcuno…e noi confermiamo), nel 1998 arrivò “Another World”, che confermò lo scetticismo di chi pensava al disco precedente come un fortunoso colpo di coda: tra inutili cover di Hendrix, suoni assolutamente censurabili e varia chincaglieria, l’unico brano che fa la sua degna figura è China Belle, rieccheggiante i fasti di Tie Your Mother Down. Ma è decisamente troppo poco: forse è per questo che da cinque anni ormai s’attende un migliore seguito.

Articolo di Carlo Crudele

Manfredi

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