Strindberg alla maniera di Dürrenmatt

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Tutti i matrimoni sono un pantano.

Quando lo scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt vide rappresentata Danza Macabra (o Danza di morte) di August Strindberg pensò subito che le possibilità che il drammaturgo di Stoccolma stava aprendo fossero magnifiche: vide un teatro innovativo, geniale, diverso. Al contempo, però, capì che le traduzioni non lo soddisfacevano, che gli adattamenti non erano all’altezza del testo.

Così nasce Play Strindberg. 1969, Teatro di Basilea.

E va ora in scena, dal 31 ottobre al 5 novembre, alle Fonderie Limone Moncalieri, teatro suggestivo e contemporaneo nato da un progetto di rimodernizzazione.

La traduzione è di Luciano Codignola, la regia di Franco Però.

Il palcoscenico (scene di Antonio Fiorentino, luci di Luca Bronzo) è un ring quadrato, con tanto di corde ai lati. Ricorda quello della boxe. Forse, ancor più, quello del wrestling – dove è, appunto, luogo di recitazione, di finta violenza, di aggressività recitata. Perché qui, di questo si tratta: di violenza. Di spietatezza.

Spettacolo in undici round.

La storia, di base, è quella di Strindberg. Ma i personaggi, il modus operandi, è totalmente innovativo. Edgar (Franco Castellano) e Alice (Maria Paiato) sono alla soglia delle nozze d’argento. Sono sposati. Non si sopportano. Si detestano, anzi. Si odiano ferocemente.

Tra di loro sta Kurt (Maurizio Donadoni), cugino e vecchio amante di Alice. Sua la colpa dell’unione, si unirà allo scambio di battute condite di humour nero.

Edgar e Alice si insultano forse per la vita di cui l’altro li ha privati. Uno non è mai diventato generale, l’altra non ha potuto essere una grande attrice.

I loro scontri sono round veri e propri, con pause in cui tutto si fa immobile e si riprende fiato, e scene che ricominciano al nuovo suono. I loro sono scontri fatti di parole che tagliano. Parole grottesche, asciutte, ironiche. Si ride molto, di un sarcasmo cattivissimo e geniale. La sceneggiatura è sottile e spassosa.

Gli attori formano un trio perfetto, affiatato, che non lascia scampo. Ognuno rende magnifico il proprio e l’altrui ruolo. Il dialogo è un flusso continuo, fino alla fine, e l’aria diventa rarefatta. Ma tanto fanno anche con le semplici espressioni del volto. Quando Edgar ha dei crolli, sviene e sembra non risvegliarsi, il sorriso di Alice è crudele ed esilarante.

E muori, una buona volta, boiardo miserabile!

Una sigaretta, una partita a carte, una cena attorno al tavolo, una melodia al pianoforte (Alice suona sempre una canzone, Edgar vuole sempre sentirne un’altra, diventano simboli di una lotta che non ha fine.

Eppure, quando Kurt rivolge loro la fatidica domanda: Ma voi, perché vi odiate? , loro non sanno  più che cosa dire. Alice, semplicemente, risponderà: Perché siamo sposati. Il matrimonio spesso pare inevitabilmente condannato alla sconfitta e all’odio.

Battute irriverenti, che a tratti sembrano perfette per una sitcom.

L’unica cosa che può tradire l’epoca sono forse solo i magnifici costumi (Andrea Viotti), come quello rosso che avvolge Maria Paiato. Per il resto, è un dramma totalmente attuale.

E alla fine Kurt si renderà conto del fatto che, con Edgar che mugula mezzo paralizzato, Alice sarà l’unica inteprete. Lei, da sempre, lo capisce. Del resto, sono sposati.

Nel tardomedioevo La danza macabra era la raffigurazione della danza tra uomini e scheletri. E qui, in fondo, il modello è lo stesso. I round, i verbi, gli aggettivi taglienti sono un ballo/scontro accompagnato dalle musiche (Antonio Di Pofi) e dal continuo botta e risposta. I personaggi si accompagnano, rispondono, barcollano e si agitano come se stessero ballando, appunto, una danza macabra. Macabra, ma divertentissima.

Visto alle Fonderie Limone Moncalieri il 2 novembre 2017

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