Morte di Danton: virtù e rivoluzione all’ombra dell’uomo.

Morte di Danton

Io queste cose non le comprendo: non conosco punto e a capo, non conosco cambiamento. Io sono sempre e solo una; un bramare e un agguantare ininterrotto, una vampa, un fiume. Mia madre è morta per il dispiacere, la gente mi segna a dito. È una cosa stupida. Tutto confluisce in un unico punto, in ciò che ci dà gioia: i corpi, le immagini di Cristo, i fiori o i giocattoli; è sempre lo stesso sentimento; chi gode di più, prega di più. 

Questo passaggio tratto da la Morte di Danton di Georg Büchner segna un momento emblematico dello spettacolo in scena al Teatro Politeama di Napoli dal 26 aprile al 7 maggio 2017 per la regia di Mario Martone: Marion, amica si Danton, prostituta dall’animo fragile, diventa protagonista di un’intima confessione attraverso un barlume di passato che riaffiora perché impossibilitato a lasciare l’anima. Nell’intimità di una camera da letto, Marion spogliandosi ed immergendosi nella vasca posta al centro della scena cerca di lavar via il dolore, la tristezza, l’amarezza facendo emergere uno dei tratti salienti della rappresentazione del regista partenopeo: la condizione umana nella sua evidente e perpetua fragilità. Si tratta del motivo portante, perno attorno al quale viene costruita la messa in scena del testo, a lungo considerato ostico, dello scrittore e drammaturgo tedesco.

Questa fragilità dell’uomo è anche il trait d’union dei protagonisti: è il tratto comune di tutti i personaggi ognuno, dal proprio punto di vista, preda del dubbio. Lo stesso Robespierre (Paolo Pierobon), l’incorruttibile, il dittatore, comprende ben presto la solitudine alla quale lo condanna la propria condotta, l’intransigenza con cui affronta l’incedere degli eventi; Danton (Giusepe Battiston),  il lato libertario e pragmatico della rivoluzione, ormai deluso, in una delle prime scene, discorre con i suoi compagni di avventura, sostenitori attenti della sua causa, sepolto in una poltrona dalla quale osserva la strada senza ritorno ormai intrapresa. Sembra non avere più la forza per ascoltare, di essere più parte di ciò a  cui ha dato vita. È stanco delle alleanze, stanco dei nemici, dei complotti come se tutto questo non fosse più parte di lui. Questo suo essere lontano da se stesso mette in evidenza un altro aspetto fondamentale di Danton: la fragilità apre un varco all’evoluzione pessimistica dell’anima. Per questo motivo, nell’incedere della rappresentazione, assistiamo alla messa in scena di questa doppia anima del protagonista: in un primo momento tedioso e troppo avvezzo ai piaceri della carne, disilluso rispetto alle sue stesse idee, è nella seconda parte dello spettacolo che vengono fuori le sue idee e la volontà, ferma e consapevole, di non poter essere diverso da ciò che è.

Lo spazio scenico è esteso. Sipari interni si alzano in un moto vorticoso scoprendo e celando i vari momenti ed i vari luoghi della rappresentazione, una serie di tableau vivant che ben restituiscono il senso del terrore dell’epoca. Non a caso il calare dei diversi sipari è accompagnato dal suono duro della ghigliottina. Essi vengono anche utilizzati per sintetizzare i momenti di pathos più rilevanti dello spettacolo. Molto forte dal punto di vista visivo è la condanna a morte di Danton e i suoi amici. Le parole della Marsigliese riecheggiano nel teatro napoletano arrivando dalla platea e dal palcoscenico sul fondo del quale sta per consumarsi il dominio del terrore: corpi in attesa con il capo celato dal sipario teso dall’alto. Il canto dei rivoluzionari francesi si consuma nel sangue della lama.

La regia di Mario Martone fa della coralità del nutrito cast, trenta gli attori in scena impegnati in una prova importante nella quale si destreggiano in maniera egregia, un solido punto di forza. Il dubbio è insito tanto nei protagonisti principali della storia quanto nei personaggi minori. Inoltre l’ancoraggio al tessuto napoletano (il popolo parla con evidenti inflessioni del dialetto del regista) è un’espediente simbolico molto chiaro: Danton e Robespierre sono  i simboli della frattura che in ogni momento storico ed in ogni luogo si crea tra spirito rivoluzionario ed ordine rivoluzionario, tra rivolta e successiva legittimazione. Il paradosso dell’eccesso di politica che come un cancro pervade ogni ambito della vita fino alla sfera più intima e privata è una strada senza ritorno in cui l’unico giudizio che sembra essere valido è quello della storia. Di questa antinomia ne diventano consapevoli gli stessi protagonisti quando riferiscono di non essere nient’altro che sonnambuli: il tribunale che condanna Danton, e successivamente anche Robespierre, è il tribunale della storia che non lascia ai popoli l’emancipazione dalla condizione che viene loro consegnata. Lucille (Irene Petris), moglie di Camille Desmoulins (Lino Musella) e compagno fino alla fine di Danton, sul finire della rappresentazione prima di condannarsi a morte al grido di Evviva il re! racchiude in una battuta il senso di tutto ciò:

Non serve a niente, tutto resta com’era; le case, le strade, soffia il vento, passano le nuvole. Non si può fare altro che subire.

 

MORTE DI DANTON
di Georg Büchner
traduzione Anita Raja

regia e scene Mario Martone

con (in ordine alfabetico) Giuseppe Battiston, Fausto Cabra, Giovanni Calcagno, Michelangelo Dalisi, Roberto De Francesco, Francesco Di Leva, Pietro Faiella, Gianluigi Fogacci, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Ernesto Mahieux, Paolo Mazzarelli, Lino Musella, Totò Onnis, Carmine Paternoster, Irene Petris, Paolo Pierobon, Mario Pirrello, Maria Roveran, Luciana Zazzera, Roberto Zibetti

e con Matteo Baiardi, Vittorio Camarota, Christian Di Filippo, Claudia Gambino, Giusy Emanuela Iannone, Camilla Nigro, Gloria Restuccia, Marcello Spinetta

costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper

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