Mimmo Borrelli: crisi ha un significato latente che significa anche possibilità

Mimmo Borrelli

Mimmo Borrelli è un drammaturgo campano che ha vinto, a soli 26 anni, il Premio Riccione 2005 per Nzularchia, un testo magnifico scritto nel dialetto flegreo di Bacoli con straordinarie invenzioni linguistiche. Parte da lì la sua carriera di attore e autore teatrale che lo vede protagonista della scena teatrale italiana con titoli come “‘A sciaveca”, “La madre: ‘i figlie so piezze ‘i sfaccimma”, la sua opera-oratorio “Napucalisse” e “Opera pezzentella”. Nel 2015 nasce un’importante collaborazione con lo scrittore Roberto Saviano con il quale realizza “Sanghenapule – Vita straordinaria di San Gennaro”, andato in scena al Piccolo Teatro di Milano.

Al teatro che forse non riuscirò/
più a rappresentare, ma solo per un po’/
a scrivere, magari quando sarò/
morto e defunto, qualcuno farà ciò:/
qualche mio caro discendente sarà/
eletto a ricordarmi fin dall’aldilà/
recitando e bestemmiando nel pianto/
il mondo che ci muore sempre accanto…

(“Al teatro che forse non riuscirò”, frammento inedito)

Direttore artistico di Efestoval – Festival dei vulcani, giunto alla seconda edizione – che si terrà dal 12 al 30 settembre nei Campi Flegrei e che vedrà protagonisti artisti come Baliani, Latini e La Ruina – Mimmo Borrelli dimostra, ancora una volta, in questa lunga intervista per “Teatro della crisi”, di essere un artigiano fortemente legato al suo territorio e uno dei più talentuosi drammaturghi italiani.

1) Se volessimo cominciare un’analisi della situazione di crisi culturale del teatro italiano, da quali segnali dovremmo partire? Secondo te, la crisi del teatro potrebbe essere la diretta conseguenza di una crisi generazionale, d’identità e di opportunità? Quali sono i tempi e modi del suo sviluppo?

La dicotomia di questa domanda sta nella parola crisi. Crisi ha un significato latente che significa anche possibilità. Il teatro deve essere sempre in crisi altrimenti non si rinnova mai. Oggi, infatti, è tradizione. Tutto il teatro contemporaneo, o di ricerca, che tenta a posteriori di fare il nuovo, che ha la pretesa di fare il nuovo, non fa altro che ripetere gli stilemi degli anni 60, di un teatro che voleva rompere. La pratica attoriale è quello del capocomicato e quando queste famiglie avevano queste dinamiche, corpo-voce, erano coscienti di avere un corpo e una voce. Poi il teatro è diventato altoborghese, “di bocca”, non di cuore, ma solo mente e bocca, come nel caso di Vittorio Gassman. Poi si è passati a Luca Ronconi (bocca-testa-cervello) con Marisa Fabbri, dove su ogni foglio c’era una parola. Ma mancava qualcosa, lui me lo confessò, Ronconi riuscì a creare il suono come azione, dove ogni parola è un pensiero. La parola, però, può diventare azione, ed è possibile solo con il dialetto. Questa digressione per dire che negli anni 60 si voleva distruggere il teatro di prosa e, con le pratiche di De Berardinis, Neiwiller, Grotowski, non si pensa più alla rappresentazione come evento finale ma come ricerca. In quel periodo era giusto farlo per cercare nuove strade e per poter fare meglio teatro. Quando questa massa di cose è diventata tradizione, cioè quello che vediamo adesso, non ha fatto altro che riproporre quel che si faceva cinquant’anni fa.
Il compito, adesso, è di fare un ulteriore passaggio, la crisi deve essere opportunità ma non deve essere riproposta ma, purtroppo, ci sono artisti che ripercorrono questa crisi non per arrivare alla bellezza ma solo per mettere in scena la crisi del teatro. Io metto in scena la crisi dell’uomo e gli do una forma. Il teatro, per me, deve avere una forma. Il progetto culturale teatrale italiano è in crisi perché tende sempre verso la spettacolarizzazione.

Il teatro non serve proprio a niente,
non serve a nulla in quanto obbediente,
in quanto urgente servitore del nulla.
Servitore del mistero in una culla.
Serve il mistero e serve tutto al contrario.
Servitor senza padrone od impresario.
Pur non essendo mai e poi mai al servizio
di niente e nessun compromesso vizio.
Il teatro è arte quando unanime è il giudizio??
Un’arte è arte, poiché non è al servizio,
non è schiava se non del novizio
tiranno di un’ossessiva logorante malia:
l’intransigente durezza del supplizio,
la libertà che mette in ceppi la fantasia…

(“Il teatro non serve a niente”, frammento inedito)

Il teatro spettacolare non ha nessun senso. Per trent’anni ce lo siamo chiesti se uno spettacolo che fa intrattenimento, che non produce Bellezza, che non cambia il futuro, debba essere sostenuto da fondi pubblici e dal contribuente ma non ci siamo interrogati su cos’è il teatro. Il teatro è già un gesto politico altissimo, di altissima nobiltà, l’ultima vera assemblea democratica, che si specchia in un altro Io. Il teatro non deve essere la politica, che si serve del teatro e delle istituzioni per imporsi ma dovrebbe seguire i poeti e gli artisti, come un tempo alla corte dei Medici. Siamo soggetti a una guerra dei pezzenti, non ci vogliamo bene, io sono l’ultimo che si è inserito e vedo che, un tempo, c’erano possibilità che adesso non ci sono più. La cultura è un gioco serio e dovrebbe essere dato nelle mani degli artigiani. La crisi, quindi, è nella mancanza di un progetto. Io venni convinto da Franco Quadri con prepotenza a fare uno spettacolo e, al Mercadante, ci fu Ninni Cutaia che capì che su di me si poteva progettare qualcosa. Il problema è che Mimmo Borrelli non è un nome ma è un giovane su cui puntare, me lo fecero capire. Invece la cultura va coltivata. Quando vinsi il Premio Riccione, mi chiamò un amico di mio padre che viveva in America e mi disse “ti ha chiamato il sindaco di Napoli?” “la Regione?” “qualcuno che ti propone un contratto?”. Io risposi che era già tanto che avevo avuto un premio. In America avrei già avuto un contratto con una casa editrice per produrre nuove cose. Sotto l’aspetto della meritocrazia e della produzione spettacolare, hanno una pratica che noi non abbiamo.

Tutto assieme. Fu scroscio sovra gote,
per me, invece dopo una telefonata
settembrina, dove con onor di note
e tremula emozione soffocata,
al soffio di una timbrica vegliarda:
“Lei ci ha commosso tutti …” alla cornetta
intonai e stonai sorpresa, alla beffarda
e improvvisa notizia benedetta:
“Ha vinto il Premio Riccione”. Una coccarda
di lacrime, incredule a uno scherzo,
divamparon sulla spalla, mai infingarda
di mia madre dall’intuito a “utero-smerzo”.
Tutto mentre mio padre ghiastemmava,
Dio, ’u Pataterno che ’nc’assuperchiava,
giacché ’ncapeva si ’u succieso, fosse grave:
“Ch’è state?!!” a dice sempe cuntinuave.
Pecché credeva fosse arrivata ’a nutizia
della morte di un parente, ma ’a letizia
assummaje ’a barba quanne capette
ca ’u figlio piccerillo, gruosso se facette.

(da “Epi-Quadri”, poesia inedita)

La cultura, per noi, è un passatempo e qualcosa di aleatorio, di divertente. L’attore non è un mestiere per la gente e per i nostri politici. Ma la colpa è anche negli attori, che hanno fatto morire un rito, non facendosi attraversare più dai propri demoni.

2) Si può affermare che la crisi del teatro possa dipendere anche da una mancanza di idee teatrali forti?

Dicono che io propongo il nuovo perché utilizzo una lingua che diventa scenica ed è scena, dà ritmo e corporeità agli attori. Mi hanno detto che il merito della mia ricerca è nella scelta di una lingua scenica che permette all’attore di andare a pescare una serie di misteri emotivi e al pubblico di vivere qualcosa di diverso. Chi va in scena è sempre l’Attore e io voglio cercare sempre di scrivere qualcosa che, in tutto e per tutto, possa dare all’attore il senso delle parole. Il tentativo velleitario che cerco di dare è di una nuova proposta su modelli assolutamente classici. Non posso prescindere da Dante, Omero, dalla tragedia greca. La mia è una tragedia degli umili, scrivo dei poemi per i miserabili (Vittorio Sermonti mi disse che, forse, sono il primo). Non è, quindi, tanto la mancanza di idee teatrali forti ma è la mancanza di forma, come lo fai. Sono tutti stilemi che fanno parte della ricerca: avrei potuto essere un pacchione, un delinquente ma mi sono sacrificato. Oggi al teatro manca quel che si può raccontare in una forma precisa, imprescindibile: Eduardo, Viviani, Roberto De Simone hanno sempre vissuto il teatro come rito per vincere gli orrori della realtà rappresentandoli sotto un velo di apparente finzione. Oggi, invece, cosa vogliamo raccontare?

3) Qual è la funzione sociale del teatro oggi? Quali necessità soddisfa?

Il teatro è già politico. Non so che necessità soddisfa: ad esempio, io non vorrei, tra il pubblico, gli intellettuali ma la gente del popolo. Gli umili, gli ignoranti, che devono poter vedere una cosa viva. Il teatro, oggi come sempre, deve essere scomodo. Lo dicevano Kantor e Artaud. Ho cercato di carpire tutto questo e di sopravvivere. La funzione sociale del teatro, oggi, è complessa da trovare perché, come dicevamo prima, è necessario quando diventa un rito, qualcosa che insegna a vivere il tempo, il proprio tempo. Il teatro è un rito collettivo ed è proprio per questo che non morirà mai perché non c’è virtualità, a meno che non diventi una passerella per i politici. Il teatro cosa comunica se diventa solo un mestiere senza smuovere l’umanità? Se non racconti l’umanità e la stampi in ripetizione, non stai raccontando niente di nuovo. Io voglio farlo sempre in modo sempre diverso. Ecco, il teatro deve essere il trampolino per inciampare nel mistero ma deve avere tempo, spazio e luogo. Solo Beckett ci è riuscito, anche se voleva fare dei western.

4) Si può credere a un rinnovamento del teatro o siamo in attesa di un modello culturale che possa scuotere le coscienze?

Credo di aver risposto nella prima domanda.

5) Lo Stato sostiene il teatro in Italia? Se sì, ne beneficiano tutti?

Lo sostiene molto male, la nuova legge è terrificante perché cerca di quantificare il teatro, lo riduce a delle ore, a dei numeri. Certo, ci devono essere dei fondi che devono essere assegnati e l’azienda Stato deve almeno pareggiare. Se il teatro, però, deve produrre bellezza, non può pensare a questo, non può pensare alle clientele. Noi a Napoli abbiamo una serie di registi che hanno bisogno di lavorare e stanno appresso alle briciole. Il tanto criticato De Fusco è stato pure meglio degli altri, con lui hanno lavorato tutti, anche chi lo contestava. Il problema è che non devono lavorare tutti: se non hai più niente da dire, cambia aria, mettiti in cammino, in discussione. Il teatro è un patto collettivo di espressione. Poi c’è un problema complesso: il teatro, per poter essere veramente libero, non dovrebbe essere sostenuto dallo Stato. Lo Stato vuole la conservazione mentre, invece, il teatro è ribaltare la scena, è il sottosopra. Però viviamo di fondi pubblici e di produttori che devono “vendere” il prodotto. Al Piccolo ho trovato una famiglia teatrale e credono nella bellezza, tutti. Strehler e Grassi non sarebbero diventati nessuno, andarono al comune di Milano ed ebbero i soldi grazie a un progetto politico. Oggi i politici promuovono solo la “bruttezza”.

6) Le due misure più estreme ed urgenti da mettere in atto, secondo te.

L’unica misura è il buonsenso. C’è bisogno di capire che non si possono fare più spettacoli in cui si sperperano milioni di euro. Però poi c’è la guerra dei pezzenti, e attori importanti che chiedono tantissimi soldi. Ci sono tantissime contraddizioni che nemmeno conosco: ci vuole solo tanto buonsenso.

7) Ha ancora senso mettere in scena i classici? O andrebbero “tolti di scena”? Quanto influisce la scelta politica di un direttore artistico?

Bisogna lasciare stare i classici e scriverne di nuovi, senza deturparli con inutili erudizioni. “Shakespeare è vita così come lo trovi”.
Bisognerebbe, invece, eludere la politica, essere anche capaci di piegare il proprio talento per seguire i propri obiettivi. Devi cambiare rotta ogni volta ma non devi mai perdere di vista il punto di arrivo, non la rotta. L’ambiente è pieno di falle, e forse ci sarò dentro anche io se un giorno mi troverò a dirigere un teatro, devi fare i conti con tante cose ed evitare di farlo diventare un commercio.

8) Si può parlare di “dittatura teatrale” nel mondo delle arti in scena? Se sì, perché?

Anche qui credo di aver già risposto.

9) È possibile un “teatro della crisi” in cui artisti, spettatori e critica trovino un punto in comune?

Spero proprio di no. Mai punti in comune, altrimenti non c’è guerra. L’arte è difficilmente riconoscibile, sono tutte mode. Magari fra duecento anni non sarà più bello, la vera forza è nella sua piena contraddizione e nel suo disaccordo, quando mette sottosopra, altrimenti non è arte.

10) Quant’è importante lo spettatore a teatro? Quanto è necessario investire nella formazione di un pubblico consapevole?

Ti rispondo con questo mio scritto inedito, “Fate che il pubblico sia in disequilibrio”:

Fate che il pubblico sia in disequilibrio.
Facite scennere ’a mmerda dai fondali,
sputazzate e ghiastemmate con ludibrio:
“Mannaggia ’a Maronna!!! Cu ’i triate ufficiali!!”
Ponete delle spine sulle poltrone
e dei topi che, ai piedi delle quali,
lecchino il sangue che sgorga a profusione
dalle chiappe di spettatori occasionali.
Basta cu ’a ricerca, ’a sperimentazione,
ca trent’anne fa è morta e oggie è tradizione!!
Basta cu ’i registe, i mancati scrittori
ca cacano ’u cazzo ai testi e agli attori!!
Scrivitavelle vuje si site capace
vierze e strunzate comme ll’autore face!!
Basta con i corpi che si muovono a casaccio,
che siano fermi, ma parlino da vivi!!
Il teatro a nulla serve solo a svelare il marcio
che in noi si cela e ristagna tra i declivi
’i nu munno stuorto dove la natura
’a troppo tiempo sciala senza na misura!!

Prima di salutarti, ringraziandoti per la collaborazione, ti chiediamo un’ultima riflessione: qual è la tua missione teatrale? Come immagini la situazione culturale e teatrale italiana nei prossimi cinque anni?

Io ho programmato la mia vita in trilogie: dovrei fare il primo ciclo della trinità della terra, (il ciclo dell’acqua è ‘Nzularchia-Sciaveca-La madre) dove affronto la paternità con questo testo che si chiama “La cupa”. Mi venne a trovare Vinicio Capossela e rimase sconvolto dal fatto che avevo scritto “La cupa”. Ho diverse idee: un progetto che dovrebbe partire da una ricerca, Bipiani, case costruite a due piani dopo il terremoto, a Ponticelli, fatte ad U, tutto d’amianto. Una persona ha fatto un servizio fotografico lì. Vorrei riscrivere un Otello riambientandolo. Mi piacerebbe fare un Viviani, con grande onore, e passare alla trasposizione della mia vena cinica, tragedia e comicità.
Per quanto riguarda il teatro, io dico sempre che dalla crisi si uscirà vincenti. Quando Luca Ronconi mi fece un provino, dopo “La peste” con Branciaroli, mi infilai di nascosto, l’appuntamento era alle otto e un quarto, io alle otto e zero sette stavo giù. Mi chiamano, mi vengono a prendere, salgo tra ascensori e scale, vado in un’ anticucina, apro la porta di sinistra, trovo Ronconi e una sala teatrale aperta. Io portai “Questi fantasmi”, la parte finale, e il Caligola di Camus, la parte centrale. E Ronconi, dopo che ho finito, mi guarda e mi dice “vieni qua, l’hai fatto bene questo monologo”. Prende dei testi, della roba di Spinoza, mi fece leggere altre cose e mi prese per una cosa con Popolizio. Lo spettacolo non si fece male, ci rimasi talmente male che decisi di fare teatro da solo. Scrivemmo Nzularchia e Ronconi mi riconobbe, mi chiamò a casa e nacque un bel rapporto epistolare. Venne a vedere solo Malacrescita. Il teatrante deve fare da solo, sarà sempre così.

Si ringrazia Mimmo Borrelli per aver concesso gli scritti inediti qui riportati

 

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