Marco De Marinis: non direi che si possa parlare di una crisi generazionale

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A mio parere non è corretto parlare di una crisi culturale del teatro ma di crisi legislativa e politica. Il teatro italiano oggi è messo in difficoltà nei suoi settori più innovativi e avanzati da una gabbia normativa che penalizza la sperimentazione a favore di una sempre maggiore standardizzazione commerciale dei prodotti e del mercato dello spettacolo, preannunciando (come hanno notato Civica e Scarpellini) un prossimo disimpegno dello Stato dal sostegno finanziario alla ricerca. In una situazione del genere, i direttori dei teatri nazionali rischiano di assumere un potere enorme e di condizionare l’intero sistema, anche se forse è eccessivo parlare di “dittatura teatrale”.

Allo stesso modo, non direi che si possa parlare di una crisi generazionale. Oggi siamo in presenza di una realtà giovanile (per esempio quella segnalata e promossa da un’iniziativa importante come il Premio Scenario) molto interessante e vivace per quanto riguarda la scena, anche se -ripeto- penalizzata a livello legislativo e istituzionale. E la cosiddetta Generazione 00, o Terza Avanguardia, come è stata chiamata recentemente da Silvia Mei, ha ormai consolidato un repertorio e un immaginario: si pensi a Città di Ebla, Teatrino Giullare, Anagoor, Opera/Vincenzo Schino, Santasangre, Muta Imago, gruppo nanou, Teatro Akropolis, Zaches Teatro, Teatro Persona e altri ancora.

Tuttavia, sono contrario a discorsi rigidamente generazionali. Ancora oggi nel teatro italiano le proposte più originali ed efficaci vengono spesso da realtà teatrali con venti-trent’anni di lavoro alle spalle: dalla Societas Raffaello Sanzio al Workcenter di Pontedera, dal Teatro Valdoca al Teatro delle Albe, da Motus a Pippo Delbono e a Claudio Morganti, da Emma Dante ad Accademia degli Artefatti, da Scimone-Sframeli ad Ascanio Celestini.

Il problema non è se mettere o meno in scena i classici ma come avvalersi in una maniera teatralmente attuale ed avanzata di un patrimonio drammaturgico che il Novecento ha contribuito ad arricchire e rinnovare profondamente. Due recenti messe in scena della Compagnia Lombardi-Tiezzi (Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello e Calderòn di Pasolini) rappresentano due esempi straordinariamente efficaci di un teatro che si serve di classici (sia pure contemporanei) per proporre un linguaggio teatrale profondamente innervato da tutte le più mature acquisizioni del Nuovo Teatro degli ultimi quarant’anni, decantate dell’effimero e del modaiolo.

Il teatro d’interazione sociale, come lo ha chiamato Claudio Meldolesi, cioè quello che si fa con disabili, disagiati ed emarginati di ogni tipo, dimostra che il teatro resta uno strumento di insostituibile vitalità ed efficacia per operare in contesti difficili e minacciati: dal lavoro quasi trentennale della Compagnia della Fortezza di Volterra, guidata da Armando Punzo, all’esperienza della Non-scuola del Teatro delle Albe a Scampia, come in tante altre periferie degradate del Pianeta, per limitarmi a due soli esempi.

Lo spettatore non è solo importante ma molto di più: è la condizione essenziale perché a teatro si dia l’evento, che opportunamente il grande Leo de Berardinis distingueva dallo spettacolo, in cui il pubblico riveste un ruolo solo passivo. E sia chiaro che non si sta parlando di coinvolgimento fisico diretto ma di partecipazione percettiva, intellettuale ed emozionale di uno spettatore che, per ciò stesso, diventa co-autore dell’evento.

Ogni teatro degno di questo nome è, deve essere, sempre “teatro della crisi”.

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