Lost in translation, cosa significa il capolavoro di Sofia Coppola

Lo spaesamento del vissuto è una delle più affascinanti opzioni dell’arte cinematografica. Densità dell’immagine che coincide con la dispersione dei punti di riferimento. Una lenta immersione in un mondo che non conosciamo. Là occorre riprendersi dall’angoscia del nulla. Tokyo già “ga”, vale a dire immagine wendersiana che si colora di mille sfumature impercettibili. Tutta la natura del perdersi, del fluire, dello scorrimento perpetuo delle cose. In questo flusso alieno, immobile, freddo, disumano, invece s’incontrano due semplici sguardi, non dai cuori in inverno (come Sautet), ma due esistenze gelate dalle sottili ironie della vita che deve continuare perché “the show must go on”. Il set fotografico per Bob/Bill Murray, attore, maschera triste, il set non fotografico per Charlotte/Scarlett Johansson che continua a seguire diligentemente un marito “impegnato” professionalmente, con il sorriso dell’abbandono. Due solitudini quasi alla Michelangelo Antonioni quando è il paesaggio intorno a creare quel distacco completo, a riempire dolorosamente il senso di non appartenenza a quel mondo trasformato, perduto in mille (non una) traduzioni. Altro che amore, come il titolo, fesso, italiano. Si è perduti per sempre vicino al baratro dell’insensato; o delle telefonate intercontinentali per decidere i colori della moquette e poi il trasporto veloce degli oggetti da un angolo all’altro del mondo, Dhl o Fedex cara a Zemeckis. O per aver accettato l’ennesimo lavoro, solo perché all’ombra di tanti, tanti dollari o yen.

Lo sguardo lucido di Sofia Coppola ha il chiarore delle piccole grandi rivelazioni del cinismo minuto, mai nominato (per educazione ed ipocrisia), dell’umanità di sempre; coglie i riti meschini, deliranti, imbecilli, della contemporaneità. La velocità del lavoro, il marito che corre dentro la stanza d’albergo trafelato per prepararsi, il regista pubblicitario giapponese che in dieci secondi dice mille parole (incomprensibili). Corse al cardiopalma, fantasma sempre più sbilenco, macilento, di un’efficienza reaganiana che fu. Bob e Charlotte oppongono fieramente il loro semplice astenersi, o meglio la partecipazione strafottente, l’indifferenza verso la performance, glissano di fronte all’attesa spasmodica degli altri, balbettano qualcosa tanto per levarsi un fastidioso impaccio. Non importa più tanto lo psicologismo dietro le vicende palpitanti dei due protagonisti, gli inutili problemi coniugali, e tutti i luoghi comuni che potrebbero accumularsi. Per questo l’incontro tra due anime sole si tiene lontano dal caotico svolgimento degli eventi. L’avvicinamento intimo è possibile attraverso la creazione di uno spazio (nuovo), finalmente di sincero scambio, laddove le attrazioni sessuali sono rese, anch’esse come atti, retaggio di un modo fittizio di pensare l’incontro. La differenza d’età così sarebbe solo funzionale all’obiettivo di celebrare qualcosa di diverso da un adulterio, da dinamiche così lontane dall’immaginario banale, trito e ritrito, delle attrazioni fatali e di tutti i suoi epigoni.
Lost In Translation conduce al di là delle furie neopostcapitalistiche tra il consumo protratto di immagini clip, cartelloni pubblicitari sempre più schermi giganti digitalizzati, comodità a portata di pellemano nelle catene di alberghi super lusso, come se non fosse più possibile vedere oltre, superare la barriera dell’insensatezza, in un abbraccio misterioso, solo di passione umana, tra robot e macchine artificiali.

Articolo di Andrea Caramanna (reVision)

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