Kundun: quando Martin Scorsese ci raccontò il Dalai Lama

Ci sono tanti modi di raccontare la storia del XIV Dalai Lama. Di recente abbiamo visto i Sette Anni In Tibet di Jean-Jacques Annaud, con al centro l’espressione tronfia di Brad Pitt che rendeva ancor più vacua ed evanescente un’opera già superficiale e mediocre. Martin Scorsese sceglie la via più difficile. Si allontana dalle consuete formule di ruffiano intrattenimento, tracciando un ritratto apparentemente criptico del Dalai Lama.
Kundun (vuol dire “prescelto”) in realtà è un’opera da esperire, dove lo spettatore può cogliere la spiritualità del personaggio e della dottrina di Buddha. Il film ha un’andatura quasi sonnolenta, non possiede un filo narrativo definito, piuttosto si lascia scoprire attraverso lunghe e silenziose sequenze. Il silenzio, appunto, la pace, la serenità, la calma meditativa sono le caratteristiche principali della pellicola (e del resto a New York c’è chi va a rivedere Kundun soltanto per rilassarsi). La biografia di Sua Santità si dipana da un evento all’altro con tutta tranquillità, dalla scoperta del bambino in cui si è incarnato il precedente Dalai Lama fino all’esilio in India dopo la violenta invasione del Tibet da parte dell’esercito cinese e gli inutili tentativi di Kundun di risolvere con la non violenza le pretese del leader comunista Mao.

Scorsese si è allontanato solo apparentemente dalle tematiche dei film precedenti. Le grandi metropoli, la violenza dei gangster, sono per il regista italoamericano strade ormai troppo battute. La religione, le sfide spirituali restano i temi centrali della sua filmografia. La parte stilistica che non riguarda strettamente la regia è svolta con uno zelo forse eccessivo. Le scenografie ispirate alla pittura rinascimentale e i costumi di Ferretti sono senz’altro maestosi, ma erano proprio necessari tanta cura e splendore nelle ricostruzioni? Lo stesso dicasi per le musiche ipnotiche di Philip Glass, che sarà anche un geniaccio, ma perché non utilizzare direttamente musiche tibetane?
La connotazione accademica del film si estende anche alla sceneggiatura scritta da Melissa Mathison (qui anche produttrice e stimata writer di E. T. per Spielberg), supervisionata dallo stesso Dalai Lama. Costruito a blocchi, Kundun assomiglia più che altro a un’agiografia, quasi che Scorsese abbia limitato al massimo, forse per rispetto a Sua Santità, il suo intervento come regista. Insomma Scorsese, ma è solo un’impressione, ha lasciato scorrere la pellicola, preoccupandosi di non invalidare la sceneggiatura e i personaggi (quasi tutti attori non professionisti). Questo, e non si tratta di una nota negativa, vale soprattutto per la parte che riguarda l’aspetto spirituale-religioso del film, perché quando entra in gioco il conflitto anche politico tra gli ideali di non violenza e la dottrina comunista, si sprigiona immediatamente una drammatica tensione che ha il suo climax nell’incontro tra Mao e Kundun ed in particolare quando Mao definisce la religione “veleno per il popolo”, lasciando senza parole e in una smorfia disperata il Dalai Lama. Nonostante alcune trascurabili debolezze, il film di Scorsese, per la esemplare purezza e semplicità stilistica, costituisce un segnale forte di decisa contrapposizione all’espressività parossistica e arrogante di molte pellicole degli anni novanta.

Articolo di Andrea Caramanna (reVision)

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Una risposta

  1. ciao ha detto:

    Dovete scrivere più riflessioni sul significato della trama e meno cose su chi ha diretto il film.

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