Il Funambolo, l’amore carnale e la morte

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Il funambolo, testo non teatrale scritto da Jean Genet nel 1957, è andato in scena al Teatro Sannazaro di Napoli dal 30 giugno al 2 luglio 2016 nell’ambito del Napoli Teatro Festival per la regia di Daniele Salvo. Un poema in prosa, un racconto autobiografico di uno degli autori più discussi del Novecento, che offre uno spaccato sulla sua concezione di opera d’arte: una linea di continuità con la vita stessa, in cui i confini sono talmente labili e sfocatati da essere indistinguibili, profondamente legati e compenetrati l’uno nell’altro. Un sottile filo rosso, talmente sottile, da rendere impossibile ogni tentativo di discernimento rispetto alla veridicità dei suoi racconti. Il confine tra reale ed irreale non esiste. Esiste solo la proiezione della sua mente che con forza e crudeltà travolge a assoggetta tutto, compreso se stesso.

Il Teatro Sannazaro si presta ad essere la proiezione di questa scatola nera, la mente dell’artista. Lo spettacolo ne è totalmente denso: creature di altri mondi, ossessioni, paure, brama di potere prendono vita in uno spazio scenico unico. Il palcoscenico celato dietro un telo sul quale vengono proiettate immagini di funamboli del passato, fili sospesi che vibrano al vibrare dell’aria. Dietro di esso, in una penombra profonda, il funambolo Valentin si muove sull’orlo del suo precipizio. La platea, invece, è deputata all’azione scenica. Un gioco di luci proveniente dall’alto donano un costante movimento circolare della superficie su cui il funambolo (Giuseppe Zeno) vivrà la sua volubile realtà.

Lo amerai e di un amore quasi carnale ripete Genet (Andrea Giordana) al giovane artista algerino Abdallah Bentaga, sarai perfetto non per la tua gloria ma per la sua. Con voce suadente, una voce che sembra provenire da altri tempi, Giordana inizia il suo giovane amante all’elevazione di artista. Un monito inderogabile che sarà l’inizio e la fine di un’esistenza. Una perversione alla ricerca della perfezione assoluta, proiezione di un narcisismo feroce e violento che strumentalizza l’amore in virtù della sacralità del potere: trasformare la cattiveria insita negli oggetti in qualcosa di immenso, dove l’oggetto in questione, il filo, sarò l’unico in grado di sorreggerlo dalla forza che lo costringerà legato al suolo. Soltanto la perfezione, ottenuta mediante esercizi estenuanti, farà in modo che il filo possa precipitarsi sotto il suo piede. E la precisione sarà perfetta quando più nulla lo legherà al suolo. Un artista è solo, vive in una solitudine assoluta, lontano da tutti i possibili legami. La solitudine, però, è solo apparente poiché colmata dalla poesia e se raggiunta gli consentirà di sfuggire alla Morte. La Morte non è la caduta dal filo ma tutto ciò che vi è prima. Nulla ha potere se non l’arte stessa.

La danza del funambolo assume quindi una carattere rituale che segna il passaggio dalla vita terrena a quella di artista alla luce di una superiorità possibile laddove c’è perfezione. Il rapporto tra Genet ed Abdallah è un rapporto di servilismo puro: il giovane algerino è argilla nelle mani del poliedrico artista francese e dunque passibile di ogni sorta di trasformazione. Abbagliato dai lustrini, dalla gloria e dal suo amante, Abdallah diventerà la manifestazione tangibile dell’ego del suo maestro: salirà sul filo, sarà assoggettato ad esso, cadrà una volta e si rialzerà. Cadrà una seconda volta e sarà la fine della sua carriera e dell’interesse di Genet.

Un cerchio che si chiude. Dalla forza delle parole di Giordana che Zeno accoglie dapprima col  timore degli occhi di un bambino impaurito e poi con la ferocia che compete alla brama di gloria, tutto torna a lui. Deluso da questo giovane non in grado di schivare la Morte e mero mezzo per la sua produzione, Giordana/Genet abbandona al triste destino il suo amante che qualche tempo dopo si suiciderà con una forte dose di barbiturici. Zeno/Funambolo è dotato di quella leggerezza e di quella volubilità di chi è in tensione tra l’essere e voler essere: allenta e tira i fili della sua tormento interiore tra il timore di non essere all’altezza delle aspettative e il voler essere padrone dell’arte. Una tensione che lo spettatore legge nei suoi occhi, teneri e tristi. Gli occhi di chi vive la vita in bilico.

Lo spettacolo che mira a ricreare un’atmosfera poetica mediante l’utilizzo di tutti i mezzi a disposizione dell’arte teatrale, musica, immagini, elementi circensi e danza per emozionare lo spettatore, oltre la presenza di due artisti di notevole rilievo, vanta anche la prova canora di Melania Giglio nelle vesti di una strana creatura appartenente all’arte circense, che con la sua voce potente, in cui  alterna recitato e cantato, contribuisce non poco a ricreare l’atmosfera carica di magia ed orrore propria della pièce. Una bella prova che ben rende la capacità di Jean Genet di imprigionare nel linguaggio, in questo caso scenico, canoro e visivo, il reale e di sublimarlo con lo scopo di trascinare lo spettatore in un mondo dove i confini tra reale ed irreale sono privi di barriere e dove il teatro assume quel carattere di sacralità che gli consente di essere luogo di unione e comunicazione.

Info

Il Funambolo

DI JEAN GENET
TRADUZIONE GIORGIO PINOTTI
CON ANDREA GIORDANA, GIUSEPPE ZENO, VALENTIN, MELANIA GIGLIO
DANZATORI YARI MOLINARI, GIOVANNI SCURA
REGIA BY DANIELE SALVO
MUSICHE ORIGINALIMARCO PODDA
COREOGRAFIERICKY BONAVITA
SCENE FABIANA DI MARCO
COSTUMI DESIGN DANIELE GELSI
LUCI DESIGN BEPPE FILIPPONIO
VIDEOPROIEZIONI AQUA MICANS
PRODUZIONE MARIOLETTA BIDERI PER BIS TREMILA

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