I mondi curiosi del Jazz Festival di Saalfelden

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Paal Nilssen Love “Love Large Unit” Photo by Maurizio Zorzi

Avete voglia di sentire un po’ di musica nuova, diversa, originale in un luogo tranquillo e con un’ottima e puntuale organizzazione?
Il jazz festival di Saalfelden è quello che fa per voi e questo spiega il successo di questo evento che fa di un piccolo paese “am Steiner Meer” (su un mare di pietra) il centro del mondo del jazz per un weekend di fine estate l’anno.

Saalfelden dicevamo, poco distante da Salisburgo, un piccolo paese in una tranquilla vallata austriaca, 16.000 abitanti, le cui attrattive sono le montagne e le numerose attività sportive praticabili nelle diverse stagioni.

Molto tempo è passato dalle prime edizioni della fine degli anni ’70 quando, come ci raccontava divertito oggi ma forse non allora il direttore artistico Mario Steidl, alcuni negozi esponevano un cartello con su scritto “gli spettatori del jazz festival non sono graditi”. Oggi invece non c’è vetrina che non ne faccia cenno, anzi non c’è negozio che non abbia un riferimento anche solo indiretto (ad es simpatica l’idea dei manichini che imbracciano sassofoni, trombe o flicorni).
Oggi quindi sicuramente molte cose sono cambiate e parliamo di un festival solido anche dal punto di vista economico con partner istituzionali e privati importanti (ferrovie austriache, Volvo, Red Bull, etc) ma che non ha mutato lo spirito trasgressivo della sua proposta, anche se gli hippie degli anni ’70 hanno ora i capelli bianchi.

La ricetta è semplice ed efficace: quattro palchi, due a ingresso gratuito, uno nella piazza principale e uno doverosamente “am Alm” in alta montagna, rivolti a un pubblico “non jazz” con un programma quest’anno sostanzialmente folk di taglio comunque cosmopolita. Gli altri due palchi, a pagamento ma alla portata di tutte le tasche, si trovano nella Congress Haus, il main stage ospitato in un centro polivalente, e la “fossa dei leoni” la più piccola Kunsthaus (casa dell’arte) Nexus dove nella tarda mattinata-primo pomeriggio si svolgono i cosidetti shortcuts, i concerti forse più curiosi ed esclusivi, luogo tra l’altro dove l’associazione organizzatrice ha sede e svolge attività tutto l’anno.

Come avete forse già capito tutto è molto semplice, non ci sono location particolari, degustazioni di prodotti, star del pop indigeno, etc.
La ricetta è un’ottima organizzazione, musica di alta qualità con la barra ben a dritta sulla direzione artistica che l’ha sempre caratterizzata: il pubblico è numeroso e la cittadina ha un indotto indiretto non irrilevante.

Sicuramente questo è un festival per spiriti curiosi che hanno qui occasione di sentire cose non programmate usualmente da altri festival, spesso con esibizioni di musicisti giovani e le commistioni di diversi stili e generi sono all’ordine del giorno. Anche la presenza del jazz declinato al femminile è sicuramente maggiore che altrove; insomma qui si vuole pensare al jazz del futuro e all’allargamento concreto del pubblico di queste musiche.
Dico queste musiche perchè le tendenze presenti come detto sono molteplici anche se con una netta predominanza dei linguaggi collegati più o meno direttamente alla free improvisation e forse questo, nella pur ampia gamma dei colori toccati, dà alle volte una sensazione di una certa ripetitività e prevedibilità delle soluzioni formali e dei materiali presentati da molte band.

Un breve discorso a parte merita l’elettronica, presente in quasi tutte le esibizioni (verrebbe da dire “una spruzzata modaiola di elettronica” ci vuole altrimenti..). Però l’uso è sempre stato intelligente mai banale e ben integrato nella parte acustica predominante in tutte le band.

Essendo questo un festival internazionale è interessante osservare il “medagliere” delle quindici nazioni presenti. Gli Stati Uniti sono il primo paese per numero di artisti, come è ovvio, seguono Austria, paese ospitante che come tale meritoriamente ha la missione di promuovere i propri artisti, e la Norvegia, che da anni si distingue per qualità di proposte e di organizzazione promozionale. A seguire Francia e Germania con l’Italia relegata in coda con la presenza di un solo artista, presente tra l’altro in una band con musicisti di altri paesi. Il dato grida vendetta considerando che il nostro paese è qui ampiamente rappresentato a livello di “addetti ai lavori” e questa distonia dovrebbe far riflettere, anche se quest’anno stampa e manager italiani non si sono visti salvo qualche eccezione.

Prima di venire al sodo del programma del festival vorrei fare una precisazione: essendo io musicista non posso non sottolineare che quanto vi racconterò sarà in qualche modo filtrato dalle mie preferenze personali, dalla mia visione artistica. Mi limiterò a descrivervi ciò che più mi è piaciuto o che mi ha colpito maggiormente. Potrete sicuramente leggere reportage più completi, esaurienti e obiettivi da parte di giornalisti professionisti.

Il festival si è aperto sia al Nexus che al Congress con band austriache a testimonianza che si vuol fare buon uso dei fondi pubblici in una politica dal doppio binario: ospitare artisti stranieri prestigiosi e sostenere artisti locali per sviluppare e sostenere la cultura sul territorio. Ogni anno viene scelto un giovane musicista austriaco cui viene affidata una cifra importante per realizzare un progetto originale che vede la sua anteprima proprio al festival.
Interessante il trio austriaco Namby Pamby Boy con il pianista-tastierista Philipp Nykrin, accompagnato al sax alto dall’ottimo Fabian Rucker e alla batteria dal curioso Andreas Lettner, già protagonisti due anni fa dell’ottima produzione “Wire resistance“, oggi con trio che si muove tra l’elettronica, la dance e il jazz, supportato da una proiezione video curiosa e divertente ma, va detto, meno interessante e strutturata della musica.

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Namby Pamby Boy Photo by Maurizio Zorzi

La seconda giornata si è aperta al Nexus con un duo ricostituito per l’occasione con il chitarrista Marc Ducret e il noto sassofonista Tim Berne. Un set interessante, composizioni di entrambi, dove la chitarra ha spesso svolto un ruolo di secondo strumento melodico, un dialogo alla pari tra due musicisti eccezionali per inventiva e originalità.

Ducret-Berne Photo by Maurizio Zorzi

Ducret-Berne
Photo by Maurizio Zorzi

A seguire la “Large Unit” di Paal Nilssen Love. Progetto originale, divertente e maturo caratterizzato da una coerenza di linguaggio di tutti i fiati radicato nell’improvvisazione libera. Interessante il dialogo intelligente tra le due ritmiche contrapposte che vedevano come centro di simmetria il tuba.

Della serata al Congress mi ha colpito, nel vero senso della parola, il trio norvegese Krokofant. Musica di grande energia e convinzione tra jazz, rock e punk costruita in modo rigoroso con il suono del synth a impreziosire le trame musicali.

Nella seconda giornata l’interessante e originale proposta di Michael Riessler. Musicista tedesco in clarinetto basso solo improvvisa sopra una sua precedente incisione, utilizzando processi imitativi, corali e in delay piuttosto che oppositivi e contrappuntistici. Un interessante dialogo con se stesso, forse sarebbe stato più valorizzato da un set più breve. Comunque chapeaux, il solo è sempre una grande sfida, soprattutto per uno strumento a fiato.

Altro set curioso è stato quello del trio australo-coreano Chiri che ha visto l’impressionante performance del coreano Bae il Dong. Difficile inquadrare questo concerto (lingua e teatralità a me sconosciute),ma è stato affascinante osservare la forza espressiva del materiale musicale utilizzato e un’affinità del canto a certi materiali informali della musica di ricerca del novecento.

Efficace e ben congeniato il concerto del sassofonista francese Emile Parisienne, supportato da due ospiti di eccezione come Michel Portal e Joachim Kuhn, è stato il clou della serata del sabato. Musica forse un po’ datata ma eseguita con convinzione ed energia e all’insegna dell’agilità (non solo con lo strumento per chi ha notato le evoluzioni ginniche sul palco del leader).

L’ultima giornata si è aperta con il quintetto di Susana Santos Silva, trombettista portoghese residente in Scandinavia, come scandinavi sono i musicisti che l’accompagnano. Un set senza pause, un’improvvisazione libera delicata e ricercata, vicina alla contemporanea incentrata sull’esplorazione delle potenzialitã timbriche degli strumenti.

Uno dei clou di questo festival è stato senza dubbio “Human Feel” lo storico e da tempo poco attivo quartetto che vede il tenorista e clarinettista Chris Speed insieme al sax alto Andrew D’Angelo, Jim Black alla batteria e il chitarrista Kurt Rosenwinkel.
Il repertorio ė consistito di tre nuovi brani registrati per l’occasione, contenuti in un EP scaricabile con l’acquisto di una carta che riporta un codice “monouso”, e composizioni del repertorio storico del gruppo.
Sul palco quattro musicisti straordinari che hanno eseguito una musica multiforme ricca di richiami, dal folk, al rock, talvolta sognante, talvolta spigolosa ma sempre con un approccio corale in cui il collettivo prevale sull’improvvisazione dei singoli, va detto senza nessuna novità sorprendente rispetto al passato remoto e glorioso di questa band, se non la conferma, e non è poco, della personalità e dell’originalità di Chris Speed e compagni.

Il festival poi si chiude con un tributo alla tradizione dell’ensemble guidato da Steven Bernstein e poi un brindisi collettivo al Nexus.

Lunga vita al Saalfelden Jazz Festival!

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