I Japan, l’humus di David Sylvian

Correvano i primi anni 80 e con essi impetuosamente scorrevano le pulsazioni di nuovi stili musicali, che negavano le radici degli anni settanta, cercando nuove vie espressive ed una prima mediazione tra arte, showbiz e look.
tra questi diversi stili, quello che ha risposto in modo più completo a queste esigenze, incontrando contemporaneamente il largo favore del pubblico, si concretizza nella new wave electro.
E’ stata in grado di imporsi come uno stile nuovo, duttile ed adattabile ad ogni circostanza del mondo dello spettacolo ed è la prima che sfrutta appieno i più moderni mezzi di comunicazione di massa, con la nascita delle prime video-clip. 
Innumerevoli sono i gruppi e gli artisti che vengono compresi in questo movimento musicale e purtroppo molti di essi ora possono ben figurare nello spettacolo televisivo Matricole e Meteore.
Molte però sono anche quelle formazioni che hanno saputo sopravvivere a quel periodo, come i Depeche Mode, che con sapiente arte modaiola, ma non deteriore, hanno saputo interpretare in modo perfetto i diversi momenti dell’evoluzione musicale dagli anni ottanta ad oggi.
A volte a sopravvivere non è stato il gruppo, ma il singolo artista che, sviluppata una sua peculiare arte sonica, si afferma con album solisti di ottima fattura e qualità anche dopo lo scioglimento del complesso di cui faceva parte.
David Sylvian è un esempio chiaro di questa forma di evoluzione artistica, in quanto le sue radici musicali sono profondamente legate al gruppo dei Japan di cui rappresentava la mente e la voce.
I Japan e Sylvian sono un binomio imprescindibile, anche perché la maggior parte dei brani proposti dal gruppo sono un parto della fervida creatività di David.
Uno dei principali meriti che devono essere ascritti all’attività dei Japan è quello di aver costruito un ponte tra il sound occidentale e quello orientale, senza per questo perdere la propria identità stilistica legata alla new wave.
Della formazione facevano parte: Steve Jansen alla batteria e alle percussioni, Richard Barbieri ai synth e alle tastiere, Mick Karn al basso e lo stesso Sylvian, voce, chitarra e luce guida del gruppo.
Alle spalle c’era l’insegnamento elettronico dei Kraftwerk ed affini e nel futuro le propaggini di influenze soniche d’oriente, il tutto condito da un atteggiamento trendy, perfettamente allineato al periodo, ma con un palese snobismo per le sonorità troppo commerciali.
Questi sono i Japan, amati dalla critica di quel periodo ed ancora più amati da una fetta di pubblico che, pur cercando un sound alla moda e conforme ai tempi, non era soddisfatto dalla superficialità del sound proposto dallo showbiz, che in quegli anni possiamo ben immaginare incarnato nei Duran Duran e negli Spandau Ballet.
Sylvian, Barbieri, Jensen e Karn producono una matrice musicale nelle cui coordinate trovano ordine e coerenza le più diverse influenze ed indicano alle menti più attente le tracce guida che portano dritte al futuro e le cui eco non si sono ancora spente oggi.
Quindi nulla da spartire con Duran Duran e Spandau Ballet, se non un certo atteggiamento estetico molto glam, inoltre, diversamente da quei gruppi, i Japan non producono musica, la creano.
Nella loro discografia ufficiale svettano due album, Gentlemen Take Polaroids e Tin Drum, che sono fondamentali per focalizzare sia il loro stile, sia le direzioni che la musica new wave avrebbe preso negli anni successivi verso le sue epigoni.
Il loro potenziale creativo è al massimo in questi album ed è sempre con molto piacere che si gustano le ritmiche marcate ed insieme complesse di Jensen, sulle quali si adagia, come un tappeto prezioso, il suono delle tastiere di Barbieri, accompagnato dai virtuosismi al fretless bass di Karn.
Tutto l’insieme rappresenta una fantastica cornice alla voce dai timbri oscuri di un Sylvian che sta per maturare il balzo creativo da solista di Brilliant Trees.
David Sylvian è l’aliante portato nel cielo dell’arte musicale dalla potente carica creativa dei Japan e sulle sue correnti soniche vola ancora oggi lontano, mentre a noi non resta che seguirne il tragitto artistico come un esempio irraggiungibile.

Articolo di Romano Rigamonti

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