I giganti della montagna e il poema della cenere di Latini

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L’ultimo dramma di Luigi Pirandello, I giganti della montagna, è una riflessione incompiuta, scritta poco prima di morire, sul rapporto strettissimo tra vita e arte. Non c’è più un vero confine tra persona e personaggio e la strada da percorrere per giungere ad un palcoscenico non è altro che la vita. L’idea dell’Arte come Vita, che ha comunque percorso tutta la poetica di Pirandello, qui si fa, però, più estrema e oscura, percorsa e percossa da infinite paure e da infiniti silenzi. L’ultima frase del copione incompiuto, infatti, è “Io ho paura”, con cui Latini fa iniziare la sua versione “radio edit” de “I giganti della montagna”. A partire da quella frase, comincia a svilupparsi un lavoro potente, visionario, basato su uno straordinario lavoro vocale che Latini ha fatto su se stesso. Una voce che immagina la paura, mutevole, che affonda nelle ferite aperte dei personaggi e che riemerge, improvvisa, prendendo corpo nella scrittura pirandelliana. Una voce in maschera che diventa voce di petto, di testa, che registra tutte le tensioni narrative del testo fino ad acquisire il valore-segno della maschera.

Roberto Latini si fa carico del dolore dei personaggi e ripensa il mito pirandelliano, moltiplicandone le inquietudini e trovando un ritmo nel dramma che funge da tessuto connettivo e da partitura sonora. Il performer si fa macchina attoriale, diluisce la propria maschera per attraversare le infinite modulazioni del testo pirandelliano, superare i ruoli e l’eterno dualismo tra immagine e parola.
Poi c’è il teatro come pretesto, come rottura della finzione scenica: la trama dei “Giganti” parte proprio da una compagnia di attori girovaghi, capitanata da Ilse, che giunge alla Villa della Scalogna, gestita dal mago Cotrone, dove la vita non è compresa entro i “limiti del naturale e del possibile”. Dapprima Cotrone e gli Scalognati, gli abitanti della villa, cercano di allontanarli con fulmini, tuoni e apparizioni ma, infine, li accolgono invitandoli a recitare il loro dramma ai Giganti della Montagna, signori molto potenti che potrebbero accogliere la loro proposta.

Latini si muove, quindi, vestito di nero, su una scena semivuota dominata solo dai microfoni, e fonde il testo con una partitura musicale di musiche, echi, suoni e rumori naturali distorti. Da una parte, c’è l’assenza del dio Teatro, fatto di attori e scene, e, dall’altra parte, c’è la sua presenza, invocata attraverso una dimensione sospesa, eterea fatta solo di voci che si sottraggono alla dittatura del senso e del simbolico. Sembra quasi che Latini sfidi il Derrida conferenziere affrontando il “poema della cenere”, cioè di qualcosa che è scomparso o il suo nome, ormai illeggibile. E “se vi è là cenere, questo vuol dire che – sotto sotto – un po’ di fuoco resta” e quel fuoco è il lavoro di Latini, che stravolge completamente il testo per trasferirlo su una dimensione altra, quella di un Nuovo Teatro, che continua a vivere aprendo al passato ma, al contempo, permettendo al presente di irrompere in scena fino a spezzare ogni frammento di ricordo. Ne “I giganti della montagna – radio edit” c’è integrazione del passato e rottura fino ad una rielaborazione commovente del presente, di un teatro della crisi che sta scontando il fatto di essere nata in un’epoca senza futuro.

 

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