Ferdinando e lo spettro del passato

Ferdinando

“‘On Catellino nun sape ca ‘o nciucio, il pettegolezzo è una r’ ‘e poche cose ca veramente riescono a te fa’ campà… a te fa’ sciatà e te fa’ piglià interesse ‘a na vita accussì bbrutta e accussì amara…”. 

Ferdinando, commedia teatrale che ha consacrato Annibale Ruccello sul piano nazionale, si contraddistingue per la visione cruda e a tratti cinica di una società che a fatica trascina le proprie spoglie nella totale decadenza. Vincitore di due premi IDI, nel 1985 come miglior testo teatrale e nel 1986 come miglior messinscena, il testo, oggi come allora, si presta ad essere una fotografia lucida e brutale della progressiva contaminazione dell’anima che facendosi fregio di valori altisonanti si produce in meccanismi criminali di profonda depravazione. Connotazione che conferisce un carattere etereo al dramma che nel tempo ha ottenuto crescenti consensi, di pubblico e di critica.

Dunque un’eredità complessa quella raccolta dalla regista Nadia Baldi che dal 10 al 15 gennaio 2017 ha portato in scena al Teatro San Ferdinando di Napoli il dramma ruccelliano. La vicenda narrata ruota attorno a quattro anime consumate da giornate votate al tedio: Donna Clotilde (Gea Martire) baronessa neoborbonica ritiratasi in una villa della zona vesuviana all’indomani dell’unificazione dell’Italia, come segno di disprezzo verso la nuova cultura piccolo borghese nata dalle macerie del Regno delle Due Sicilie; Gesualdina (Chiara Baffi) cugina zitella nonché serva della baronessa; Don Catellino (Fulvio Cauteruccio), parroco del paese, dalla condotta torbida votata ai piaceri della carne. Tra loro Ferdinando (Francesco Roccasecca) l’oggetto del desiderio, aitante presunto parente di Donna Clotilde, la quale si trova inaspettatamente nella condizione di doverlo accogliere presso di lei in seguito ad una serie di sventure familiari.

I quattro, in questa deportazione forzata dagli eventi, hanno dato vita ad un microcosmo emozionale, sostanzialmente generato dalla condizione di reclusi in una gabbia finto dorata, di cui la lingua e l’enfasi sulla stessa ne sono il riflesso principale. In questo senso appare cruciale il passaggio all’inizio citato: ‘o nciucio è senza dubbio espressione alle radici del dialetto napoletano ma diventa, in questo caso, espediente di vita, fuga dalla routine quotidiana se non addirittura negazione di una realtà che di gran lunga è preferibile inventare piuttosto che essere vissuta.

Donna Clotilde, emblema dell’aristocrazia in decadenza, tesse le fila di questa fitta quotidianità malata: scegliendo una vita in ritiro, giace radicata nel suo letto, incarnita in esso attraverso una camicia da notte diventandone tutt’uno. Da quel letto, come un fiume in piena, vomita il disprezzo per il nuovo ordine stabilito, investendo i suoi pochi interlocutori con una dose letale di brutalità.  Gea Martire è una Donna Clotilde aspra, a tratti grotteschi e talvolta sgangherati, che se da un lato sono conferma della bravura dell’attrice, dall’altro rivelano lo spettro di un ruolo importante pensato da Ruccello per Isa Danieli: non troppo vicino ma neanche lontano.

Lo spazio scenico non è completamente a vista. La scenografia di notevole impatto di Luigi Ferrigno lascia all’occhio dello spettatore la camera da letto di Donna Clotilde e all’immaginazione la continuità della stessa. Dall’alto pendono funi alle quali la protagonista si regge nei suoi limitati movimenti e dalle quali vengono calate vivande che la stessa provvede furtivamente ad ingurgitare. Sempre le funi, in un gioco di tende e cerchi, portano in scena dapprima l’oggetto del desiderio e sul finire, quando ormai il gioco perverso di Ferdinando si è ormai palesato portando con sé un vortice di tensioni e malignità, sempre dall’alto viene calata la camicia di Donna Clotilde che, come un cerchio che si chiude, ripristina l’equilibrio fittizio del principio.

Chiara Baffi è una Gesuladina più umana e più sensuale di quella a cui l’immaginario collettivo era abituato e proprio tale connotazione conferisce una leggera ventata di freschezza all’intero impianto teatrale. Il pubblico ripaga la bellezza del testo ruccelliano e la prova attoriale, in linea di massima gradevole, con risate ed applausi: il testo dell’autore stabiese è sicuramente un capolavoro, una profonda analisi storica, linguistica e dei rapporti umani che in ogni tempo e in ogni dove graffia l’anima.

L’allestimento andato in scena al Teatro San Ferdinando seppur con l’introduzione di alcune innovazioni, ad esempio l’aver spogliato l’impianto barocco di Ruccello, non sembra allentare la tensione rispetto al predecessore illustre: l’empatia tra pubblico e attori è insita nell’opera e poco viene lasciato alla personale ricerca di significati e significanti nell’incedere della narrazione. Tutto appare abbastanza chiaro, forse troppo. Sensazione che lascia un pò di amaro in bocca, per l’occasione forse mancata, per non essere andati oltre lo spettro.

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