Fear of Talking Heads

In tanti celebrano o hanno celebrato come massima sintesi di certo ‘funk bianco’ uscito alla ribalta nei primissimi anni ’80 un disco dei Talking Heads, Remain in Light, interamente costruito sulla reiterazione di figure di chitarre e percussioni, all’insegna della contaminazione del suono ‘bianco’ della chitarra elettrica con la proverbiale pulsazione ‘nera’. Più che legittimo, quindi, pensare a Remain… come a un perfetto soggetto da Time Capsule, in questo periodo in cui il ‘funk bianco’ sembra essere tornato alla ribalta. C’è sempre stato però qualcosa, in Remain in Light che, per quanto lo apprezziamo, non ce lo ha mai fatto considerare il miglior disco dei Talking Heads, né il più rappresentativo della ‘influenza’ che il gruppo di David Byrne e soci possa avere a tutt’oggi sulla nuova new wave. Quello che consideriamo il disco più adatto ad essere discusso in questa chiave è infatti il lavoro che precede Remain in Light, la seconda tappa della trilogia di album prodotti assieme a Brian Eno (la prima era stata More Songs about Buildings and Food).

Fear of Music, licenziato nell’anno di grazia 1979, concentra probabilmente il meglio dei Talking Heads che erano stati e di quelli che sarebbero venuti dopo: l’amore per le ritmiche ‘funk’ ma anche per un’idea di canzone continuamente al confine tra la struttura e la sua divaricazione/demolizione (avete già letto queste cose a proposito dei Liars? peggio per voi…), con in più un lavoro sugli arrangiamenti di chitarra (sempre più strumento ritmico e solo in pochi casi protagonista di assoli) inedito per un gruppo di rock bianco, scarno come in altre band newyorchesi dell’epoca ma sempre molto controllato e ‘sensato’. Fear of Music, già dalla copertina ‘neutra’, una zigrinatura nera senza foto o immagini, si propone come oggetto strano, misterioso, e altrettanto poco catalogabile sembra proporsi la sua musica.
I Zimbra ne è il brano di apertura, ed è già un climax, una cavalcata di chitarre funky (ospite anche Robert Fripp, che di lì a poco avrebbe dato una svolta ‘funk futurista’ alla nuova incarnazione dei King Crimson) e di bassi pulsanti a sorreggere uno testo senza senso (del poeta Hugo Ball). Le coordinate sono già chiarissime: poco realismo nei testi (si parlerà delle proprietà della carta in Paper, dei pro e contro del vivere in città in Cities e di altre simili quisquilie, fino allo splendido bozzetto da dopobomba di Life During Wartime), amore per il ritmo nelle musiche, ma senza derive world o etniche, sempre restando ancorati all’impianto strumentale di chitarre, basso e batteria (con una spruzzata di synth qui e là). Splendidi manifesti di questo funky intellettualoide, straniato e lunatico sono anche Air, con le strofe nervose su cui svetta il basso di Tina Weymouth a contrapporsi a un ritornello melodicissimo, ‘strappato’ dalle corde vocali di Byrne, e il capolavoro di stortezza ritmica Animals, un tempo dispari che è una gioia per figure chitarristiche ossessive e incisive.
Solo due le eccezioni nella controllatissima giungla ritmica di Fear of Music: la notevole ballata Heaven (“Il Paradiso è il posto dove non succede mai niente”) e l’allucinazione finale di Drugs: cinque minuti in cui il ritmo si narcotizza e rallenta fino a diventare una nube di synth e scarna batteria, in cui la voce di Byrne è persa in un delirio allucinato ma lontanissimo da quella che solo fino a pochi anni prima avrebbe potuto essere l’occasione per sproloqui psichedelici o cosmici: gli anni ’80 stanno per arrivare, baby, e non c’è tempo per la vecchia logorrea del classic rockDrugs è l’introduzione alle atmosfere di altre indagini sonore della coppia Byrne/Eno (vedi il loro album My Life in the Bush of Ghosts) e dei Talking Heads, lanciati verso qualcosa che non sarà più davvero così ‘rock’: magari più nuovo, ma non così diretto ed incisivo come ciò che è Fear of Music.

Articolo di Luca Fusari

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