Epepe di Ferenc Karinthy, il dramma dell’incomunicabilità

La morte non è nel
non poter comunicare,
ma nel non poter più essere compresi.
(Pier Paolo Pasolini)

Epepe” dello scrittore ungherese Ferenc Karinthy – figlio del più celebre padre Frigyes Karinthy, romanziere e umorista, l’uomo che ha teorizzato per la prima volta i noti sei gradi di separazione – è un libro che Emmanuel Carrère, sua la prefazione della nuova edizione Adelphi, reputa “destinato a essere un libro di culto”.

Un romanzo che sarebbe probabilmente piaciuto a Perec, a Kafka o a Saramago. Anche a Pavese, mi verrebbe da dire, che riconosceva problema centrale dell’esistenza il tentativo di capire come comunicare con gli altri, o a Pirandello.

Questo perché raramente il tema dell’incomunicabilità è stato trattato in modo così efficace, pragmatico, oscuro – e dal punto di vista di un linguista. È questo il lavoro del protagonista, lo studioso Budai, specializzato in etimologie. Viene invitato a tenere una conferenza presso un congresso di linguistica a Helsinki. Si addormenta, probabilmente dopo aver sbagliato uscita nella confusione dello scalo e aver preso l’aereo sbagliato, e si ritrova in un luogo che non conosce, di cui non conosce la lingua. Una lingua strana, gutturale, assurda, che Budai non riesce a ricondurre a nessun ramo di sua competenza. Né riesce a spiegarsi a gesti. E così comincia questa storia, il suo disperato sforzo di fuggire.

La stessa prosa di Karinthy conserva uno sguardo da scienziato: tenta di scavare, analizzare in modo quasi chirurgico. L’autore costruisce frasi estremamente precise, rigorose. Si potrebbe parlare di uno stile freddo, ma in questo caso risulta davvero l’unico modo corretto di procedere nella narrazione. Il dramma di Budai appare così in un certo senso ancora più doloroso, con quel continuo disperato tentativo da accademico di analizzare ciò che non può essere analizzato. È come guardare un pesce che si agita nell’acquario che lo tiene prigioniero.

Epepe” è un incubo estremamente realistico, onirico ma concreto: come vivere? Come spiegare l’errore a qualcuno, come procurarsi da mangiare, come cambiare del denaro? Stare senza linguaggio è una guerra. Rende inermi, abbrutisce, umilia. Un essere che non può raccontarsi è annullato, non esiste. All’inizio per gli altri – dopo poco, anche per sé.

Budai si ritrova totalmente solo, una solitudine forzata. Non conosce nessuno, non ha contatti, passa inosservato. Forse è anche colpa della sua timidezza, resa più grave dalla difficoltà d’espressione. Non ha percorsi da seguire. Non sa leggere strade, cartelli, indicazioni. Quell’alfabeto sembra runico, sumero, una Lineare B non decifrabile.
Non ha fiumi da rincorrere fino al mare, a un porto. Non sa raggiungere stazioni, metropolitane, aeroporti, perché non sa leggere le mappe, e non sa quale mappa corrisponde alla città in cui si trova.
È un vagabondo – l’inferno è non sapere dove. Non ha indizi. Le persone hanno fisionomie d’ogni tipo, senza volto e senz’anima. Sono migliaia, per ogni piccola azione quotidiana fanno code infinite come fosse normale. Budai pare l’unico straniero in quella città labirintica e assurda che sembra uscita dai Viaggi di Gulliver. 

“E perché proprio lui? A chi dava fastidio? Che cosa aveva fatto di male, e a chi? Eppure sarebbe stata una situazione più sopportabile. Rabbia, malevolenza, odio: una reazione con due poli. Alla collera si può rispondere con la collera, la si può accettare, identificando l’avversario e lottare, combatterlo, dunque anche sconfiggerlo. Ma se a confinarlo là erano l’indifferenza e la paralizzante noncuranza di chiunque – cosa che sembrava più verosimile – allora come tirarsi fuori da quelle sabbie mobili senza niente a cui aggrapparsi, niente su cui puntare i piedi?” 

Budai è arrabbiato, frustrato, impotente. Non ha nessuno da poter incolpare. Quel luogo è un non-luogo, un distopico carcere linguistico e morale, geograficamente impossibile. Non esiste empatia. L’assurdo si fa man mano inquietante e senza speranza. Viene da pensare, mentre si prosegue nella lettura, che la sua sia in verità la condizione di noi tutti: essere destinati a parlare senza essere capiti, senza che qualcuno, tranne rarissimi casi, si sforzi d’intendere – come in quei film di Antonioni in cui due persone non si amano più e non sanno dirselo. O, forse, è la condizione verso la quale stiamo rapidamente andando: metropoli gigantesche e ignare in cui si procede a spallate e senza dialoghi.
Allora l’importante sarebbe trovare un porto il prima possibile, uno qualsiasi, e salpare.
 

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Una risposta

  1. Claudia ha detto:

    Affascinante e terribile situazione letteraria . angosciante questa solitudine .

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