Jouvet/Servillo e sette lezioni sull’Elvira di Molière

Elvira_002_©FabioEsposito_PiccoloTeatroMilano

Che cosa significa essere un attore? In tanti hanno provato a rispondere a questa domanda a cui forse non c’è risposta. Come per tutti i mestieri che hanno a che fare con l’arte, semplicemente a un certo punto alcune persone decidono di farlo e in qualche modo riescono a penetrarne i misteri. Se chiedeste a diversi scrittori qual è la maniera migliore per scrivere un libro, probabilmente avreste tante risposte differenti quante sono le teste. C’è chi si dice impulsivo, chi invece programma ogni frase e ogni azione. Stessa cosa vale per gli attori. Soltanto su un aspetto sembrano essere tutti d’accordo: il talento non basta. Il talento è un falso mito. Alla base di un grande artista ci sono sempre invece parole passate quasi di moda: lo studio e la fatica.

Questo ci racconta Toni Servillo, ormai riconosciuto come uno dei più grandi attori italiani (ugualmente a teatro o al cinema), in Elvira (di Brigitte Jacques), il suo ultimo spettacolo in scena al Teatro Carignano (Teatro Stabile di Torino) dal 13 al 25 marzo. Elvira è una dichiarazione d’amore verso il mondo della recitazione e del teatro, un testo di meta-teatro. La dimostrazione che essere un grande attore vuol dire non lasciare niente al caso, essere una persona che si trasforma in quello che mette in scena, che si annulla e si fa altro da sé. Uno spettacolo che nasce dalle lezioni di Louis Jouvet (qui interpretato da Servillo), il grandissimo interprete francese, a un gruppo di studenti del Conservatoire d’Art Drammatique di Parigi. In particolare, Jouvet tiene sette lezioni sul monologo di Elvira nel Don Giovanni di Molière.

“Non meravigliatevi, don Giovanni, di vedermi a quest’ora e in questi panni. Una ragione pressante mi costringe a venire da voi, e quel che devo dirvi non consente indugi. […] Vi ho amato, niente al mondo mi è stato caro come voi; per voi ho dimenticato il dover mio, ho fatto le cose più insensate; e tutta la ricompensa che vi credo è di emendare la vostra vita, di evitare la vostra perdizione. Salvatevi, vi prego, o per amore di voi o per amore di me.”

Elvira è la moglie di Don Giovanni, una donna che lo ha profondamente amato nonostante i tradimenti e il dolore che egli le ha continuamente inflitto. Alla vendetta lascia spazio in questo monologo una supplica, l’urgenza di avvertire una persona alla quale si è voluto bene dei suoi errori. Elvira corre da lui all’improvviso, come una sonnambula, come se dovesse tirare fuori parole che meditava da troppo tempo.

Questo è probabilmente uno dei più bei monologhi di Molière e, dunque, anche uno dei più complessi da recitare. Una vera e propria sfida, specialmente se si studia teatro da relativamente poco. A prendere appunti sulle lezioni di Jouvet è Claudia (Petra Valentini), la sua giovane allieva, che è sfinita dalla preparazione di questo ruolo e dalle continue e assillanti interruzioni perfezionistiche del maestro. Non ce la posso fare, ripete. E Jouvet, senza mezzi termini: Allora non sei un’attrice.

Accanto a lei ci sono gli altri due ragazzi, Octave e Léon, nell’opera rispettivamente Don Giovanni e Sganarello (Francesco Marino e Davide Cirri).

Il tempo della narrazione è scandito dalle luci (di Pasquale Mari): siamo nel 1940, l’avvento del nazismo non può non modificare l’approccio al teatro. Claudia è un’ebrea. Le lezioni vanno avanti fino al termine, pur se in sottofondo riusciamo ad ascoltare le voci dei tedeschi. Alla fine però sarà la Storia ad avere la meglio, a schiacciare ogni forma di bellezza assieme al suo flebile tentativo di opporsi alla barbarie.

Attore è uno che riesce ad avere un tipo di intelligenza differente. Non l’intelligenza degli intellettuali e dei colti o, meglio, non solo, ma l’intelligenza del teatro. Quel modo cioè di capire i sentimenti di un personaggio e farlo proprio. Non attaccargli addosso i propri ma comprendere i suoi e tentare di esporli annullandosi in lui.

Sentimento è la parola-chiave della rappresentazione, probabilmente quella che Jouvet ripete più volte.

È un maestro intransigente, quasi esasperante. Eppure si presenta all’inizio di spalle al pubblico, seduto su una poltroncina in prima fila. Osserva la scena semivuota dominata dai dialoghi come tutte le persone in platea. Scende dal palco, invade la sala.

Perché la verità è che in ogni apprendimento esistono due persone che imparano: lo studente e l’insegnante. Claudia non si limita ad apprendere. Claudia insegna la propria versione di Elvira, quella che lei ritiene corretta. Smentisce il maestro, pur seguendo i suoi consigli.

La loro è una dialettica faticosa, un’iniziazione continua a quello che è un lavoro che mette alla prova la resistenza psicologica. Un modo di imparare che si fa a tratti quasi violento, aggressivo, e poi docile e comprensivo. Rigoroso e poetico, esaltante e catartico. Nulla si ottiene senza fatica. Il teatro cresce assieme agli attori, alle infinite prove e versione dello stesso dialogo.

E alla fine Jouvet dovrà ammetterlo: pronunciare la frase “Don Giovanni, ve lo chiedo tra le lacrime” senza piangere davvero come lui aveva invece suggerito, rende il monologo di Elvira infinitamente più potente.

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