Dolls, tre storie d’amore insolite nel film di Kitano

Quando ero ancora un aspirante comico (…) ho visto un uomo e una donna legarsi con un pezzo di corda.
La gente del posto li chiamava “i vagabondi legati”.
Takeshi Kitano

 

Quello che colpisce nell’immediato sono i colori, novità assoluta in un film di Kitano. Subito dopo a prevalere è il tema di Dolls, tre storie d’amore, anch’esso insolito per Takeshi Kitano. Alfine ci si rende conto di aver assistito ad un film bellissimo, di grandi sentimenti, di laceranti emozioni sviluppatesi da un concetto assoluto: l’amore e il suo ineluttabile destino. Nemmeno una delle tre storie racconta un rapporto d’amore finalmente vissuto, persino gli atti quotidiani sono negati nella sua forma riconoscibile, a dominare è un costante immobilismo umano che sembra non poter agire in modo indipendente a causa di un’antica diaspora tra i desideri e il potere schiacciante dell’amore, quindi dell’irrazionale. I personaggi sono delle marionette – e Dolls inizia con una rappresentazione del teatro Bunraku – manovrate da un misterioso deux ex machina che modifica il “naturale” corso delle cose.
A ben vedere un film crudo, per certi versi violento, e questo non è insolito per Kitano.
Narrare l’amore è sempre stata una sfida difficile da vincere, mostrare l’amore lo è ancora di più. Kitano non intende procedere tramite il racconto di una relazione impossibile con il suo svolgere regolare (o irregolare), scavalca la trappola melò grazie alla convinzione – convince (e avvince), quindi era esso stesso convinto (e avvinto) – che realizzando questo film tramite la solita grammatica amorosa non sarebbe sortito nessun risultato degno di nota. Ecco quindi la grammatica di Kitano:

La visione – tale soprattutto perché molto suggestiva – dei due “vagabondi legati” si svolge durante l’intero percorso filmico quale moto perpetuo, come un girovagare su se stessi senza meta. Matsumoto e Sawako sono dei sopravvissuti e un simbolo dell’ostinazione ad amare. Dopo aver tradito Sawako accettando di sposare la figlia del presidente dell’azienda in cui lavora, Matsumoto abbandona la cerimonia per andare da Sawako, rimasta psichicamente invalida a seguito di un tentato suicidio. Così come in nome dell’amore lei ha tentato di uccidersi – quale ricatto ha più forza che quello nato dall’egoismo dei sentimenti, dalla volontà di possedere l’oggetto amato ad ogni costo -, lui sacrifica la propria vita per offrirle se stesso – quale migliore espiazione dal “peccato”. Ma la svagata Suwako è solo un sofferente involucro della donna che era, e Mastumoto, lontano dall’aver scelto (davanti all’appartamento vuoto di lui i genitori si convincono erroneamente che andare via è stata una sua scelta), diviene esso stesso un corpo inerme, un volto apparentemente ascetico senza averne però la conseguente serenità e luce. Legati da una corda rossa, usata per tenere sotto controllo la donna, i due da corpi divengono figure dolorose che attraversano la vita senza un apparente segno di comprensione di quello che gli accade attorno, camminando tutto il giorno e lasciano quale unico segno del loro passaggio la debole scia della lunga corda. Legati attraversano le stagioni e i colori della natura che si trasforma – mentre loro sembrano essere uguali a se stessi -; sempre legati Sawako subisce una violenza carnale – di grande semplicità la sintesi onirica dello stupro, tanto da sembrare solo l’incubo della donna -; e ancora legati giungono sino ad una infinita distesa di neve dove finalmente sembra concludersi il loro destino. Caduti in un crepaccio i semidei di un mondo immoto rimangono sospesi su di un ramo grazie alla corda che li lega, e che non permette abbiano un percorso diverso nemmeno nella morte.

Le altre due storie sono una ramificazione di quella centrale, assurta a simbolo e quindi ormai lontana dal proprio procedere terreno. Lo yakuza Hiro vive solo e malato con il rimorso di una vita violenta che ha reciso ogni legame affettivo, primo fra tutti l’amore per una ragazza che ogni sabato in un parco gli portava il pranzo quando egli era un operaio. Dopo trent’anni Hiro decide di tornare nel parco scoprendo che la donna è lì, come gli aveva promesso di andare ogni sabato. Hiro le si avvicina, lei sembra non riconoscerlo. In realtà, nonostante l’evidente invecchiamento dato dal trascorrere del tempo percepibile, la donna preferisce fingere di aver incontrato un altro uomo e, quindi, di poter rinnovare quell’attesa che l’ha “costretta” a fermare i propri sentimenti all’atto dell’abbandono, perfino a vestirsi allo stesso modo di allora.
La terza è la storia di un amore mancato, anzi della relazione platonico-ossessiva di un fan per la pop star Haruna (Kyoko Fukada, veramente un idolo pop in Giappone). Il fan Nukui decide di diventare ceco dopo che un incidente sfigura la star allontanandola dalle scene. Il loro incontro è l’ultimo passaggio di un amore che nonostante tutto non è sfuggito al suo destino.

I colori, quelli dei costumi e quelli della natura, seguono le quattro stagioni, divenendo il simbolo di uno stato d’animo per i “vagabondi”, una sorta di palesamento di un sentire che non riescono ad esprimere ma che si portano addosso tramite i vestiti (realizzati dallo stilista Yamamoto). Il trascorre delle stagioni è l’unico tempo cronologico autorizzato ad esserci, è un tempo ciclico come l’esistenza in morte di una coppia che non ha più nulla di reale (ecco quindi giustificata la bellezza e il cambio delle vesti, come la totale mancanza di riferimento realistico del loro stato di povertà). L’ultimo tratto di vagabondaggio, quello sulla neve, si veste con i costumi delle marionette Bunraku dell’inizio (il loro colore è esaltato dal bianco-grigio dell’ambiente) con la conseguente riapparizione del teatro e delle marionette guidate a riprodurre il lungo strascicare delle membra dei personaggi (pre-visto nelle prime sequenze) correlato ai gesti di Sawako e Matsumoto, quali leggendarie figure di un’opera millenaria.

Infine, le immagini rimandano sempre a qualcosa d’altro. Possono preconizzare l’inevitabile prossimo futuro (il caso, prima che l’uomo decida di fuggire con Sawako, dell’auto di Matsumoto ridotta ad una sporca e ultima dimora incorniciata dalla corda, per il momento utilizzata per gli abiti), volgendosi indietro nel passato, offrendo agli stessi oggetti la possibilità di parlare quasi gridare quali messaggeri di disgrazie (il “colloquio” di Sawako con le tre statuette di angeli dalle diverse posture). Quadri in cui il movimento è dato dalle cose e dall’ambiente, mentre i personaggi, e con essi la musica ripetitiva che concorre alla sospensione di un atto mai compiuto, attendono, semplicemente.

Articolo di Emanuela Liverani (reVision)

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