Discorsi alla nazione

discorsi alla nazione

 

Ascanio Celestini nel suo ultimo lavoro, Discorsi alla Nazione, esce dallo schema del “teatro di narrazione”, che ha caratterizzato la prima parte della sua ricerca teatrale, e degli sketch televisivi, che l’hanno fatto conoscere al grande pubblico, per approdare a un’altra forma-spettacolo di stampo brechtiano ma che si inserisce, talvolta forzatamente, in un nuovo filone drammaturgico che predilige, come meccanismo narrativo, l’utilizzo di frammenti di monologhi – come nel teatro di Sinisi e Timpano – piuttosto che il classico assolo.

Celestini non racconta più l’Italia passando per il ricordo, anche autobiografico, ma, adesso, è un narratore contemporaneo, capace di entrare nelle pieghe distopiche del nostro sistema per raccontare un futuro sempre più prossimo a noi. All’interno di una trama surreale, che vede protagonisti un tiranno che aspira ad essere eletto democraticamente e una nazione, molto vicina alla nostra, in piena guerra civile e costantemente battuta dalla pioggia, Celestini inserisce le storie di un condominio perecchiano, piene di una solitudine devastante e metafora di un popolo svuotato di qualsiasi valore.

Un passaggio fondamentale nella fase di ricerca dell’autore romano che, oggi, predilige una scenografia più strutturata e continui cambi di prospettiva, talvolta destabilizzanti, per diventare un vero e proprio intellettuale organico dei nostri tempi. Parla direttamente al suo pubblico per spiegare il senso del suo cambiamento smontando, di continuo, in una sua riflessione il significato dell’essere di sinistra, oggi.

Attraverso l’arma del paradosso Celestini racconta la nostra realtà, il nostro Belpaese frantumato, straziato, animato dal nulla, dalla rassegnazione e da nessun istinto vitale, se non quello legato alla mera sopravvivenza. Il Paese raccontato da Celestini aspetta un nuovo dittatore, cordialmente cinico, per cambiare veramente e per essere guidato verso nuovi orizzonti, che non tarda a prendere il suo posto di comando, al centro della scena, con un look vintage, e a parlare ai lavoratori e a una sinistra che ha completamente fallito i suoi obiettivi. Il pubblico, in sala, ride dei suoi stessi errori – qui sta la forza dirompente dell’ultimo lavoro di Celestini – e di una serie di paradossi, moltiplicati dall’autore all’inverosimile ed usati drammaticamente come specchio.  ”Discorsi alla nazione” è un buon punto di ripartenza, al di là della sua disomogeneità strutturale e di alcuni momenti soporiferi, per l’ormai drammaturgo romano proprio perché parte da un’attenta analisi della semantica politica e popolare per smascherare luoghi comuni, valori politici anabolizzati e un paese in piena crisi identitaria e culturale. Eppure Celestini dovrà concentrarsi, nel suo prossimo spettacolo, maggiormente sull’azione performativa che, al momento, appare ancora priva di senso logico e di alcun impatto sul senso ultimo della sua creatura. Se davvero vuole affrancarsi da un teatro borghese che, anche lui, ha contribuito ad alimentare dovrà lavorare molto di più sugli elementi di scena da legare al testo ma che possano, allo stesso tempo, misurarlo, un po’ come nel teatro di Strehler. Buona, quindi, l’ambientazione a scena fissa ma mancano quelle intuizioni in grado di far decollare il suo spettacolo.

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