Dancer in the dark, la Palma d’Oro di Lars Von Trier

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Uno schermo nero. La sala cinematografica immersa per un interminabile istante nella oscurità (dark) più completa. Una ossessiva musica (dancer) roboante e ripetitiva colma il vuoto visivo. L’incipit di Dancer In The Dark è molto più di una esplicita dichiarazione d’intenti, racchiude in un breve lasso di tempo la crisi della visione tematizzata dal film. Lo stravolgimento delle gerarchie sensoriali che sembra essere uno degli imperativi del cinema contemporaneo.
Selma (la cantante islandese Bjork) è una giovane immigrata cecoslovacca nell’America industriale degli anni ’50. Operaia in una piccola fabbrica, Selma e il figlio Gene vivono in una roulotte nel giardino di casa di due americani apparentemente benestanti, il poliziotto Bill (David Morse) e la bella moglie Linda (Cara Seymour). Il loro legame matrimoniale è in realtà esclusivamente legato alla disponibilità economica che Bill ha fatto credere di avere alla moglie dissipatrice. In realtà Bill e la sua casa sono in mano alle banche. Anche Selma nasconde dietro agli occhiali spessi un terribile segreto: sta diventando cieca. Non solo. Anche il figlio Gene è afflitto dalla stessa malattia ereditaria agli occhi. Presto, se non si interverrà chirurgicamente, anche lui è destinato all’oscurità. L’infinito amore della madre tiene celato a Gene questo terribile destino. Selma lavora giorno e notte. Risparmia centesimo su centesimo pur di poter pagare un giorno l’operazione di Gene.

Per sfuggire alla dura realtà quotidiana della fabbrica e di una vita non certo felice Selma sogna ad occhi aperti. Sogna di essere la protagonista di un musical. Uno di quei musical hollywoodiani che Selma ama e di cui conosce perfettamente ogni meccanismo narrativo, tanto da essere capace di costruirsi il “suo” musical interiore. Un mondo immaginario ove tutto è colore, espressione stilistica, perfette coreografie di figure danzanti. La cecità fisica di Selma apre le porte della sua immaginazione. Ogni rumore della realtà, il frastuono meccanico delle macchine in fabbrica, la puntina gracchiante di un vecchio giradischi, il suono cupo di un treno sulle rotaie, si trasformano nella testa di Selma in un motivo da musical. La realtà diviene ancora più cupa e tragica quando Bill, spinto dalle continue richieste economiche della moglie, ruba il piccolo tesoro di Selma. Accecata dal bisogno, tradita nelle amicizie, Selma uccide Bill durante una colluttazione.
L’amore per il figlio, la decisa volontà di espiare il suo peccato originario, l’aver cioè dato vita ad un figlio pur conoscendo l’ereditarietà della malattia agli occhi, spingono la giovane operaia verso un terribile calvario. La punizione, la tortura psicologica e fisica, sono il fardello che Selma sceglie consapevolmente di portare sulle spalle fino alla sua morte.
Dancer In The Dark è un film nettamente scisso in due parti. Due film semi indipendenti che si compenetrano, si contaminano, si rivelano essere l’uno il “testo critico” dell’altro.
Da una parte il dramma. La tragedia della vita reale di Selma. Un egoistico amore verso il figlio che spinge Selma ai margini della società, all’impossibilità di intrattenere relazioni emozionali di alcun genere con i suoi simili. Le lenti spesse degli occhiali isolano, celano Selma alla vista degli altri uomini. Una impenetrabile barriera difensiva portata con malcelato disagio. Tutto filmato o meglio riprodotto secondo i canoni del Dogma. La camera a mano, la pellicola sgranata, nessun “trucco” cinematografico, nessun taglio. Nessun filtro, nessuna luce di scena. La massima impressione di realtà da riversare sullo spettatore.
Dalla parte opposta il musical. Il mondo interiore di Selma dedotto dai canoni del musical classico. Colori sgargianti, scenografie perfette, movimenti armonici dei personaggi che improvvisano gradevoli passi di danza. L’effetto nascosto della ripresa tramite 100 telecamere disposte con certosina pazienza per “cogliere l’attimo”. Una netta impressione di irrealtà. Il cinema classico rappresentato nella sua valenza di evasione, di puro intrattenimento, di fuga dalla realtà.

Inizialmente i due mondi a parte si sfiorano soltanto. Dal mondo reale ritratto dal Dogma scocca la scintilla, il rumore, per la creazione del mondo immaginario classico del musical. Col procedere della narrazione i due mondi iniziano a contaminarsi. I toni leggeri e spensierati del musical si caricano della tragedia di Selma. La visone reale negata nel mondo concreto, diviene visone immaginaria necessaria alla sopravvivenza. Tutto il male del mondo, le angosce e le pene di Selma si riversano nel musical. Realtà ed immaginazione divengono inseparabili. Nella processo di compenetrazione dei due testi, nella apparente facilità con cui è possibile trasformare il musical in tragedia e viceversa, si evidenzia l’artificiosità artistica che sottende ad entrambi. Una attacco frontale studiato a priori. L’evidenziazione di canoni del genere attraverso il loro forzato accostamento. A cui segue la loro negazione programmatica, ed infine lo sbriciolamento stesso del concetto di genere.
In poco più di due ore Dancer In The Dark ripercorre l’evoluzione del cinema negli ultimi anni. In un solo istante, l’ultimo movimento di macchina, il volo finale della macchina da presa verso il soffitto della prigione, segna in modo inequivocabile l’impossibilità finale di scindere le due categorie cinematografiche. In un solo movimento di macchina il film segnala la natura intima del cinema (post)moderno. Non un cinema di genere, ma un cinema fatto di più generi, amalgamati ed omogeneizzati tra loro. Con Dancer In The Dark Lars Von Trier non solo riflette ed evidenzia i meccanismi narrativi ed i percorsi emotivi forzati del cinema classico, ma mette in mostra, senza falsi pudori, le forzature narrative e stilistiche che sono il fondamento del suo cinema. Del cinema contemporaneo nella sua globalità.

Articolo di Fabrizio Pirovano (reVision)

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