Carmen: dalla Siviglia di Bizet alla Napoli di Martone e Moscato

Carmen Martone

Rileggere la Carmen di Bizet, oggi, che senso può avere? Tanti, molteplici, necessari. Il lavoro di Mario Martone, che adatta un testo di Enzo Moscato Lacarmèn, si riallaccia drammaturgicamente a I Dieci Comandamenti, opera maestosa di inizio Duemila, seppur sfruttando un organico più ridotto ma, al contempo, guarda implicitamente a L’opera segreta nel raccontare la città. Due opere che hanno messo in scena Napoli partendo da una cornice culturale precisa (Caravaggio, Leopardi, Anna Maria Ortese, Viviani) e che formano, con Carmen, un trittico ideale che non ha nulla di agiografico.

La Carmen di Merimée è solo una delle tante tracce da seguire ed è un pretesto per raccontare un no man’s land localizzabile nel Sud del mondo e cristallizzarlo in un tempo indefinibile, sicuramente appartenente a un passato remoto. Nasce dalle onde marine del Golfo di Napoli, ad apertura di sipario, e culmina nelle viscere della musica etnica, del sangue, della boutade, della sceneggiata. Mario Tronco rielabora le musiche di Georges Bizet e le affida all’energia travolgente dell’Orchestra di Piazza Vittorio che le sfrutta come contrappunto all’azione scenica.

Carmèn, una travolgente e imponente Iaia Forte, nella prima scena è già stata resa cieca da Cosè, il soldatino veneto morso da passione irrazionale, ed è la Napoli accecata, ferita, sfregiata da chi la ama ma che non muore. Da questo momento comincia un lungo flashback di Cosè, interpretato da un misurato Roberto De Francesco, chiuso tra le mura di un carcere, che parte da un commissariato. Le scene in movimento di Sergio Tramonti creano diversi ambienti, in base ai punti di vista, fino ad arrivare al feticcio finale, un carro folcloristico, che incarna la follia collettiva di una città allo sbando.

La Carmen di Martone sintetizza, inoltre, tutto il percorso di un regista politico, nel senso più alto del termine, che ha avuto la forza, tanti anni fa, di slabbrare, con una forza espressiva inaudita, la drammaturgia napoletana sprovincializzandola e spingendola su territori urbani iperrealistici.

Carmen è pop perché riesce a restituire sulla scena il racconto popolare di Merimée senza intellettualismi. Niente a che vedere con la bellissima Serata a Colono, che i teatri di Napoli non hanno tenuto in considerazione, o con le Operette morali, che qualche anno fa abbiamo potuto apprezzare all’Istituto Italiano degli Studi Filosofici. Nella “Carmen” ci sono caratteri da sceneggiata (O’ Dancairo, O’ Rinacciato, Mercedès, O’Torero), il racconto fumettistico di una città multiforme, arcigna e inafferrabile e il recupero di codici di linguaggio datati, che appartengono alla nostra tradizione, per mostrare la morte che si nasconde dietro all’allegria della festa e della piazza.

Una visione che può non piacere, che potrebbe urtare molte sensibilità (come capitò nel 2004 con Fofi, Cordelli e Lanzetta nel caso de “L’opera segreta”) ma che, a modo suo, è un omaggio pieno di pietà a una città ossimorica e a un’estetica che ha da sempre, nel bene e nel male, sfruttato i suoi simboli.

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