Black clouds, umanizzazione tecnologica e nuvole nere all’orizzonte

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Black Clouds, opera ultima di Fabrice Murgia, è andato in scena in anteprima assoluta al Teatro Politeama il 3 e il 4 luglio 2016 nell’ambito del Napoli Teatro Festival. Attore ed autore teatrale, artefice di un linguaggio originale che fa uso di elementi visivi, sonori e magnetismi tecnologici per avvolgere lo spettatore ed avvicinarlo alla parte nascosta dell’essere umano, Murgia propone una creazione che attinge dal contemporaneo per promuovere una riflessione sui temi caldi della disparità tra Nord e Sud del mondo, lo spazio visibile ed invisibile della rete, le truffe online e il turismo sessuale che proprio tramite la rete invade continenti molto lontani tra loro.

L’assunto di partenza è che la scienza informatica è un’arte che tutti dovrebbero apprendere per essere liberi nella conoscenza. Ma quanto costa questa libertà? La narrazione è divisa in due momenti tra loro interconnessi: un antefatto, che sul piano temporale è l’evento più recente, premessa per un racconto a ritroso che parte dal 1984. Nel buio della sala, in piedi al bordo del proscenio, Valérie Bauchau impugna il microfono e, accompagnata da una traduttrice, racconta una storia. È la madre di Aaron Swartz che parla, il giovane attivista e programmatore statunitense, genio del codice, cofondatore del sito Reddit, morto suicida l’11 gennaio 2013, un mese prima che cominciasse il processo per aver scaricato e resi pubblici materiali del JSTOR e del MIT. Il suo ideale di libero accesso e circolazione delle informazioni, la possibilità per chiunque in qualunque parte del mondo di costruire la propria informazione lo ha imprigionato al controllo dell’Fbi fino al triste epilogo.

La penetrazione della rete dilaga e il mondo s’interroga sulle reali possibilità del mezzo alla luce dei fatti di Wikileaks: chi bisogna punire? Chi nasconde documenti importanti per il benessere collettivo o chi li ruba per metterli a disposizione di tutti? Valérie Bauchau, con un lessico familiare, tra tensione e continui rimandi a filmati ed immagini che scorrono sul fondo, apre un varco temporale.

Siamo nel 1984 e assistiamo al parallelismo tra due discorsi tenutisi in quell’anno: da un lato Steve Jobs (François Sauveur) da Cupertino presenta al mondo il primo McIntosh, precursore della pedissequa diffusione della macchina quale nuovo alleato dell’uomo; dall’altro Thomas Sankara (El Hadji Abdou Rahmane Ndiaye) pronuncia il suo discorso alle Nazioni Unite facendosi portavoce dell’umano scevro dell’artificio meccanico.

Da questo momento in poi assistiamo alla confluenza di assi temporali e spaziali, momenti e luoghi le cui immagini e la cui azione scenica vengono proiettate senza sosta su schermi che invadono la scena. Dai lati, al centro, in rilievo o arretrati aggrediscono lo spettatore: da Saly, in Senegal, nota meta di turismo sessuale per l’occidente alle frodi ivoriane, dal deep web alla stanza di un ragazzo che, bloccato in questa piccola Silicon Valley, immagina di piratare il proprio corpo introducendo una telecamera all’interno della cavità oculare per sopperire l’occhio mancante. Un macchina come estensione del proprio corpo, il rendere umano ciò che umano non è.

In questo spazio dove realtà virtuale e reale si mescolano senza sosta risulta difficile poter seguire la narrazione. Lo sguardo si perde in questo accavallarsi dell’azione e delle immagini, col rischio possibile che lo spettatore possa lasciarsi dei pezzi alle spalle. In questo procedere l’intento nobile della rappresentazione, portare alla luce il mondo sommerso e le implicazioni della natura del web, svanisce nella rete di pixel. I dialoghi, duri e carichi di realtà, talvolta eccessivamente lunghi,  passano in secondo piano, come se lo schermo li assorbisse totalmente lasciando il campo unicamente all’immagine. Un’estremizzazione, forse troppo eccessiva, dell’idea mcluhaniana  del Medium is the message: l’influenza del mezzo sul messaggio va oltre il contenuto specifico veicolato lasciando che si disperda nell’aria.

Degna di nota, invece, l’idea di costruire un discarica di computer, un ulteriore mondo sommerso e piano narrativo, dalla quale vediamo risorgere da un cumulo di spazzatura una donna (Fatou Hane) vestita di cavi. La sua voce è la voce della disperazione: con i polmoni bruciati dal fumo e tossendo a più non posso guarda dal basso il mondo invasato dalla tecnologia, e arrabbiata per le sue nefaste conseguenze smantella sbattendo violentemente al suolo tastiere e pc sparsi, colpevoli di tutto ciò. Uno spettacolo senza dubbio importante dal punto di vista dell’impianto visivo, con interpreti di rilievo, ma che resta nel complesso confusionario e troppo carico, che lascia lo spettatore andar via con non pochi interrogativi irrisolti.

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