Affliction: il film di Paul Schrader sull’ineluttabilità del destino

Ci sono film che riescono a parlare dell’ineluttabilità del destino in maniera assoluta, che riescono a fare della sorte una maniera di raccontare i fatti e le storie. Paul Schrader ne ha scritti e diretti molti, di questi film. Che parlasse di Toro Scatenato, o di Robert De Niro tassista disadattato, o vedesse Richard Gere nei panni del gigolò, la predestinazione dei suoi personaggi emergeva grandiosa. Come nel suo bellissimo e poco fortunato Lo Spacciatore, la dimostrazione più evidente che indietro non si torna. E di predestinazione, in Affliction, se ne ritrova una buona dose. C’è la piccola città, il niente al centro del niente, azzerata da un manto di coltre bianca che rende le strade tutte uguali. C’è il dramma di due fratelli, che un padre violento ha virtualmente ridotto a spettatori della vita e degli affetti, confinati in un angolo a subire il peso del passato. Rolfe ha fuggito i fantasmi della provincia, ma non se la passa meglio di Wade, che nella provincia annega le sue radici, né poliziotto, né impiegato comunale, né marito, né padre, né amante. E’ l’inesistenza il filo rosso che tiene insieme Affliction, la contemplazione di personaggi trasparenti persino a sé stessi, che scivolano sul proprio essere “vecchi”, sulla perdita di quello che mai è stato in loro possesso. Un thriller che non esiste, e vede Wade imbastire un’indagine probabilmente senza senso, contro i suoi stessi fantasmi, contro l’opprimente presenza di un padre ubriacone, e sempre padrone dei suoi sentimenti peggiori.

Schrader rispetta lo status letterario del film (che è tratto da un romanzo di Russell Banks, lo scrittore del Dolce Domani di Egoyan), affidando alla voce fuori campo di Rolfe il compito di narrare, di sfogliare pagine, di registrare la lenta, inesorabile discesa di Wade lungo la china della dignità. Una discesa che il narratore, il suo stesso fratello, dà per certa sin dalla prima inquadratura. Il destino ha già scritto tutto, si tratta solo di seguirne con pazienza la traiettoria.
Non tradisce, Schrader, il suo stile fatto di indugi, di riflessione, di lunghe soste dell’obiettivo sui personaggi. Chiede molto ad attori bisognosi di rughe, di una vita pesante dietro le spalle. Avrebbe meritato l’Oscar, con tutta l’ammirazione per Benigni, anche il Wade di Nick Nolte, pensoso, irrequieto, malfermo e condannato. Deformato da un dente che procura dolore, e che ricorda che proprio il dolore è uno dei fondamenti dell’universo. L’Oscar l’ha vinto invece, giustamente, James Coburn, che ad Hollywood staziona da una vita, per la sua interpretazione del padre violento, piena di esplosioni surreali. Schrader non può prescindere dallo sguardo acquoso di Willem Dafoe nella parte di Rolfe, sconfitto anche lui anche se professore d’università, vinto da un cinismo che è come uno stupefacente. E Sissy Spacek, invecchiata anche lei, anche lei drammaticamente sola. Il tempo nessuno lo riporterà indietro, neppure noi.

Articolo di Riccardo Ventrella (reVision)

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